Archivio per 5 dicembre 2013

UNA SPIA AL LICEO

Miley Cyrus interpreta Molly, un’investigatore privato che ha scelto di lasciare la scuola per lavorare con suo padre (Mike O’Malley), un ex agente di polizia. I loro giorni insieme sono ricchi di consorti che tradiscono e piccoli ladruncoli colti in flagrante. Tuttavia, la sua vita cambia improvvisamente quando un agente dell’FBI (Jeremy Piven) la incoraggia ad andare sotto copertura in un campus universitario.
Qui Molly cambia, si trasforma dalla dura investigatrice di strada ad una ricca ragazza della confraternita Brooke Stonebridge. Molly deve imparare a “fare la passeggiata” e a “parlare” per mantenere la copertura durante la sua missione: proteggere la vita della sorella della confraternita Alex Patrone (Lauren McKnight) il cui padre ha intenzione di testimoniare contro alcune persone molto pericolose. La sorveglianza risulta quasi impossibile per l’outsider Molly, che lotta per adattarsi alla cultura universitaria, ai suoi nuovi amici e il suo nuovo incarico.

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COME TI SPACCIO LA FAMIGLIA

David, uno spacciatore da quattro soldi, dopo essere stato rapinato, è costretto ad accettare un incarico pericolosissimo come corriere tra Messico e Stati Uniti. Per riuscire a passare il confine inosservato decide di “travestirsi” da perfetto padre di famiglia.
Ci sono casi in cui cercare di analizzare un film e la sua riuscita o fallimento, prescindendo da un modello di riferimento ingombrante e palese, risulta ingeneroso tanto per il modello che per la sua filiazione. Quindi meglio fugare subito i dubbi: senza National Lampoon’s Vacation e la sua immortale parodia della famiglia americana media alle prese con vicende tutt’altro che medie, We’re the Millers (Come ti spaccio la famiglia l’orrendo titolo italiano) non esisterebbe nemmeno. Il feeling generale dell’opera di Thurber (già regista del cult Palle al balzo – Dodgeball) e persino alcune sequenze – il confronto padre-figlio, il furgone fermo in mezzo al nulla, diverse espressioni di Jason Sudeikis – riprendono in modo chiaro momenti analoghi del sempreverde di Harold Ramis. Effetto che solo in parte frena la vis comica di Thurber, suscitando al contrario un piacevole amarcord, come se il classico meritasse di essere riproposto, con un adeguamento a linguaggio e mode del terzo millennio, epoca ancor più cinica e disillusa degli Ottanta. Specie leggendo tra le righe (amare) di We’re the Millers, benché seppellite da una coltre di risate. Perché la famiglia sghemba ma felice di Chevy Chase e soci era comunque, nel bene e nel male, la pietra basale della middle class americana, dove invece Sudeikis e Aniston devono mettere in scena il simulacro di quel modello famigliare per uno scopo infimo e legato al profitto.
Il nucleo famigliare tradizionalmente inteso non esiste più, neppure in forma fantozziana (come dimostra la “vera” famiglia dell’altro roulottista incontrato in viaggio, piagata da problemi segreti e insanabili): è solo un comodo specchietto per le allodole volto a non dare nell’occhio, più per un pregiudizio che per un’effettiva normalità intrinseca. Qualcosa che si osserva come modello in una coazione a ripetere, ma che nella sua sostanza non esiste più se non in forma contaminata e problematica. Riderci su non è semplice, ma con Thurber e i suoi Miller si può, e di gusto.

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RED 2

Frank Moses e Sarah cercano di vivere una vita il più normale possibile, con soddisfazione del primo e disappunto della seconda, che sperava in un po’ più di vivacità dal fidanzamento con una spia. La morte inscenata dal vecchio amico di Frank lo obbliga però a tornare in azione, dovendo malvolentieri portarsi dietro la compagna.
La CIA gli ha infatti dichiarato guerra poichè qualcuno ha diffuso l’informazione che Frank e la sua squadra avevano preso parte a una misteriosa vecchia operazione. La sola maniera di venirne fuori è scoprire di cosa si tratti e andare a parlare con l’unica persona ancora in vita che vi abbia realmente preso parte.
Allontanandosi sempre di più dalla miniserie a fumetti, scritta da Warren Ellis che fa da fonte d’ispirazione per i personaggi, il secondo film di Red cambia regista e vira sulla commedia screwball, mantenendo però fisso il punto di vista maschile.
L’interessante esperimento di Red 2 è infatti quello di cercare di portare molto più avanti il discorso del primo film a partire dal personaggio più originale, Sarah, la fidanzata che scopriva di stare assieme a un super agente segreto e rimaneva così affascinata dal pericoloso mondo d’azione da pretendere in ogni situazione di assumere il ruolo della damigella da salvare. Questa volta invece il personaggio interpretato da Mary Louise Parker diventa la mogliettina stanca che il marito non porta mai in giro nè coinvolge nelle sue azioni pericolose, mentre lei vorrebbe fare attività di coppia e salvare il mondo in due.
La complessità introdotta da Dean Parisot sta dunque tutta in come intorno a questa dinamica ruotino le altre, lasciando a Bruce Willis il ruolo di straordinaria spalla comica per ogni altro attore, il perno attorno al quale John Malkovich, Mary Louise Parker, Catherine Zeta-Jones e un Anthony Hopkins in forma smagliante, imbastiscono le loro gag e rivoltano i personaggi tipici della spy story internazionale.
Con le parti d’azione molto meno importanti e meno centrali del film precedente (anche dirette con meno vitalità ed esperienza) e la commedia dei sessi ribaltata, in cui è l’uomo a sopportare l’inettitudine della donna, Red 2 opera una paradossale sperimentazione nel genere della parodia, a cui a tutti gli effetti appartiene. Non è più il demenziale il filtro comico attraverso il quale sovvertire i luoghi comuni del genere ma la cornice della commedia dei sessi a irrompere nella quiete del film di spionaggio d’azione per cambiare tutto e rimescolare le carte.

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ESP 2 – FENOMENI PARANORMALI

Alex, studente di cinema, è un patito dell’horror ed è deluso dai film odierni, tipo ESP – Fenomeni paranormali: preferisce quelli dei maestri come Craven e Carpenter. Uno sconosciuto utente di YouTube comincia però a mandargli messaggi e filmati da ESP – Fenomeni paranormali. Alex è intrigato dalla cosa e scopre che, stranamente, nessuna delle persone coinvolte nel film è rintracciabile. La ricerca di eventuali “superstiti” diventa un’ossessione al punto da provocargli guai con la fidanzata Jennifer, attrice nel suo film studentesco. Alex si convince che tutto quanto è stato mostrato in ESP – Fenomeni paranormali è vero. Riesce a parlare con Jerry Hartfield, il produttore del film, che, non sapendo d’essere segretamente filmato da Alex, gli conferma che era tutto vero. Alex però vuole le prove. Trovato – grazie allo sconosciuto di YouTube – il manicomio posseduto dai fantasmi in cui è stato girato il film, Alex, assieme alla fidanzata e a qualche amico, ci entra di nascosto per filmare. Naturalmente, troverà più di quello che cerca.
La premessa è interessante come esperimento di metacinema e come riflessione sull’ambiguità dei found footage movies (basati cioè sull’asserita realtà dei filmati presentati), ma si dilunga in modo eccessivo nel presentare sommariamente un nuovo set di personaggi per poi sfociare sostanzialmente in una ripetizione di quanto già mostrato nel primo film: in pratica, una nuova troupe, stavolta di studenti – forse per acchiappare il pubblico giovanile – si ritrova nella stessa location (il manicomio abbandonato) davanti alle stesse cose (i fantasmi dalla bocca larga). Fortunatamente, l’ultimo terzo del film si distacca in parte dal percorso segnato e introduce elementi di orrore “cosmico” che ampliano l’orizzonte (metafisico) del film e segnalano almeno il tentativo di liberarsi dai luoghi comuni dell’iterazione per cercare di dare un senso alla vicenda, anche attraverso il richiamo finale alla forza del cinema come mezzo di espressione e come manipolatore delle menti degli spettatori.
Qualche effetto speciale in più e qualche discreto momento di apparente rivolgimento narrativo (la fuga in hotel) non aiutano però a superare la banalità dell’insieme. Inoltre, il filone dei reality horror ha già da tempo mostrato la corda e i suoi difetti strutturali, non ultimo dei quali la lentezza e la ripetitività del procedere che qui, accompagnate dalla petulanza dei dialoghi finto-realistici, si fanno sentire in modo particolare.
Pur essendo, volutamente, una summa di luoghi comuni, le scene del film horror studentesco (Slash N’ Burn) che Alex sta girando rappresentano una positiva isoletta di aria fresca, anche perché sono girate meglio, senza i movimenti di macchina da mal di mare del film “principale”. Colin Minahan e Stuart Ortiz (The Vicious Brothers), registi del prototipo e sceneggiatori di questo, fanno un simpatico cameo come “non” autori di ESP – Fenomeni paranormali. John Poliquin, all’esordio, fa l’esecutore della loro visione. Nel cast si rivede con piacere Sean Rogerson, reduce molto vissuto del film precedente.

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L’EVOCAZIONE

Nella nuova casa in cui si trasferisce la numerosa famiglia Perron si verificano strane apparizioni e rumori inquietanti fino a vere e proprie manifestazioni paranormali. La situazione è rischiosa e poco sostenibile, così vengono chiamati Lorraine e Ed Warren, coniugi che lavorano a fianco del Vaticano nella rilevazione e cacciata delle presenze demoniache. I due rilevano un’attività fervente oltre ad un numero impressionante di presenze così potenti da non poter attendere le autorizzazioni vaticane o l’arrivo dei prelati ma dover agire in prima persona.
Il malese James Wan, dall’esordio hollywoodiano, con il primo film della saga di Saw – L’enigmista, ha costruito una filmografia esile ma densa di terrore autentico in cui L’evocazione si pone come esperimento di scarnificazione del genere da ogni velleità di riflessione sulla realtà per andare, ancora più che in passato, a manipolare i meccanismi di paura e coraggio.
La sua storia, tratta da fatti veri, non attinge a nessun materiale di repertorio (escluse le foto sui titoli di coda) per la messa in scena, apparendo come un’ottima scusa per mettere in scena personaggi diversi dal solito (una famiglia con cinque figlie, una medium borghese che vive in una casa assieme ad oggetti demoniaci) in un contesto estremamente usuale. Ma nel cinema di Wan “usuale” non fa mai rima con “noioso”, e le sue idee di paura partono sempre da situazioni classiche del genere, con una certa predilezione per la possessione, per sorprendere e spaventare in maniera personale.
In L’evocazione suggestioni da Poltergeist e L’esorcista si uniscono ad un immaginario j-horror di demoni dalle fattezze umane, volto deformato e capelli davanti agli occhi che vengono catturati su pellicola o in video. Materiale sulla carta molto derivativo che è animato con una sceneggiatura densa di dialoghi e scene di raccordo scritti e girati con la mano sinistra o senza voglia, tutto dimenticabile se non ci fosse quello scarto fatto di idee di regia prodotto da Wan stesso. Il regista malese ha una comprensione peculiare dei meccanismi del terrore ed è capace di lavorare non solo sulle classiche apparizioni più o meno a sorpresa ma anche ad un livello più profondo sulla sensazione della presenza. È, insomma, capace di unire la grande trovata della serie Paranormal activity (trasformare il fotogramma in un luogo di ricerca, un paesaggio nel quale lo sguardo dello spettatore indaga ogni anfratto alla ricerca di ciò che non vuole vedere) con le regole classiche di un cinema di possessione immaginato come uno di assedio, in cui si resiste e non si cerca la salvezza.
In questo sono perfetti i due demonologi combattivi di Vera Farmiga e Patrick Wilson (di nuovo con Wan dopo Insidious), una coppia borghese sposata con figlia, coniugi educati e acculturati, due acchiappafantasmi privi dell’epica action che spesso accompagna queste figure ed impermeabili al terrore verso ciò che invece nel pubblico scatena la paura. Una coppietta che tiene gli oggetti demoniaci nella propria abitazione, vicino a loro e alla figlia perchè dotata della confidenza che deriva dalla conoscenza e non dal coraggio. Questo sorprendente movimento, assolutamente privo di ironia, tra terrore indotto e presentazione di protagonisti determinati e a loro agio con il terrificante, dona a L’evocazione un passo piacevolissimo e diverso dal solito.

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DRIFT – CAVALCA L’ONDA

Sidney, 1960. Una madre con i suoi due figli Andy e Jimmy fugge da un marito violento e alcolista e raggiunge le coste della Western Australia. Dodici anni dopo i due fratelli hanno l’idea di realizzare in proprio dei surf. Dovranno superare numerose difficoltà per far sì che la loro passione si trasformi in un’attività remunerativa senza perdere nulla della spinta iniziale.
Quando il cinema scoprì il Cinemascope gli studios non chiedevano agli sceneggiatori storie complesse ma pretendevano che venissero contestualizzate in ampi spazi. I film dovevano utilizzare tutte le potenzialità del nuovo formato ed era questo ciò che contava. Drift rispetta questa ormai antica regola e sfrutta al massimo la spettacolarità delle riprese in acqua. La macchina da presa non si limita ad osservare i surfers da distanze più o meno ravvicinate ma entra direttamente con loro dentro le onde che si arrotolano su se stesse offrendo allo spettatore prospettive inedite. La storia ‘vera’ non manca. I due fratelli crearono realmente la Kelly Brothers Surf Gear in un’epoca (gli Anni Settanta) che sembrava disponibile per ogni sperimentazione. Anche sul piano dei sentimenti, visto che il fotografo itinerante JB non oppone praticamente resistenza al fatto che la bella Lani sia più interessata ai due Kelly piuttosto che a lui con cui giunge sulle coste di Margaret River. Tutto però viene risolto con il classico confronto tra i ‘buoni’ (anche se con qualche cedimento di Jimmy) e i ‘cattivi’ (i malviventi di turno o il funzionario di banca che non aiuta l’imprenditorialità). Con, in aggiunta, una mamma sempre impegnata con la macchina per cucire. Il prologo in bianco e nero e la scelta di farlo virare nel colore al momento giusto offrono un buon aggancio all’attenzione dello spettatore. Il resto lo fanno le onde dell’oceano. Per gli appassionati del surf Drift è un film da non perdere.

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MONSTER UNIVERSITY

Michael Wazowski ha sempre saputo che sarebbe diventato uno spaventatore e per questo, fin da quando era un piccolo mostro, ha coltivato con costanza il sogno di iscriversi alla Facoltà di Spavento della Monsters University. Peccato che, proprio quando il suo desiderio sta per realizzarsi, l’incontro con il prepotente James P. Sullivan, compagno di studi, rischia di mandare a monte i suoi piani. Non solo i due vengono cacciati dal corso, nonostante l’impegno profuso da Mike sui libri di testo, ma sono persino costretti a fare squadra: solo vincendo le Spaventiadi e la sfida ingaggiata con l’orrido rettore Tritamarmo, infatti, potranno sperare di essere riammessi e di diventare ciò che sentono di essere.
L’uscita di Monsters & Co. aveva rappresentato (e continua a rappresentare) una tale vetta nel panorama del cinema d’animazione e della stessa Pixar che era impensabile poter fare di meglio. Eppure, John Lasseter e i suoi sono riusciti nell’impresa intelligente di restituirci il piacere della compagnia di Mike e Sully senza metterli in competizione con loro stessi. Si cambia tempo, optando per il prequel, si rinnovano i personaggi (e alcune new entries sono notevoli), ma soprattutto cambia radicalmente il registro: dal filosofico e tenero incontro/scontro tra il mondo dei mostri e quello dei bambini, attraverso la porta del destino, a quello goliardico e avventuroso del college movie tinto di fantasy, di buon umorismo e di una goccia di retorica (la porta, infatti, non è più la soglia della conoscenza con l’Altro, ma l’elemento di un proverbio per cui, quando si chiude un’opportunità, se ne apre un’altra).
Se l’originale è il ritratto di una strana coppia, il prequel, che narra come ci si è arrivati, è più classicamente la storia di Mike, piccolo grande eroe, costretto a fare i conti con il proprio handicap (è un mostro che non fa paura) ma anche con la forza contagiosa che gli viene in soccorso dalla determinazione e dalla passione che la carriera di potenziale spaventatore ispira in lui. Un oggetto magico -il cappellino donatogli in età scolare da un impiegato alla Monsters Inc.- scatena letteralmente l’avventura, mentre le prove che l’eroe dovrà superare si confondono e sovrappongono con le prove delle Spaventiadi, ingegnosamente architettate da un duo di sceneggiatori in gran forma (gli stessi del primo capitolo, Gerson e Baird).
Il passaggio dalla regia a sei mani dei creatori di Toy Story alla direzione unica di Dan Scanlon (Cars) si sente, ma non penalizza oltremodo un film pieno di divertimento, che ha il suo fiore all’occhiello nell’ambientazione, mai così fantasiosa e accurata.

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IO SONO TU

Sandy Bigelow Patterson è un dirigente in procinto di fare un importante passo in avanti sul piano professionale mentre nel suo quieto mènage familiare (moglie e due figli) c’è un nascituro in arrivo. Tutto questo sembra infrangersi quanto Sandy scopre che qualcuno gli ha rubato l’identità. Fino a quando però non sarà in grado di provarne l’attività e di presentarlo alla giustizia il suo ruolo di vice direttore di una nuova e brillante società finanziaria sarà in bilico. Scoperto di chi si tratta (una donna della Florida mentre lui vive in Colorado) ha una settimana di tempo a disposizione per raggiungerla e farle confessare ufficialmente la verità.
Squadra che vince non si cambia così l’alleanza tra Seth Gordon e Jason Bateman dopo Come ammazzare il capo e vivere felici (200 milioni di dollari incassati nel mondo) si ripropone. Con l’aggiunta (così determinante da far trasformare il personaggio da uomo in donna in fase di sceneggiatura) di Melissa McCarthy che, vista la sua performance in Le amiche della sposa, è stata fortemente voluta da Bateman nel film. Con un esito che si può definire altalenante. Perché lo spunto di partenza affonda le radici nella realtà quotidiana. Quanti hanno subito un furto d’identità sanno quali e quante siano le complicazioni che ne seguono. In una Confederazione come sono gli Stati Uniti la cosa è ulteriormente complicata dalle differenti legislazioni tra Stato e Stato. La sceneggiatura sa esplicitarle con grande efficacia nella parte iniziale offrendo la giustificazione al Sandy manager in Colorado di andare a reperire la Sandy della Florida (il nome di lui si presta ad equivoci sul sesso di appartenenza). Ha così inizio il classico on the road che sfrutta tutti gli elementi del genere buddy-buddy. La memoria corre, considerando anche il fisico dei due protagonisti, a Un biglietto in due con Steve Martin e John Candy. Qui però, il trailer ne è fedele testimonianza, si preme un po’ troppo spesso il pedale sull’esagerazione nelle gag a cui si aggiungono killer scatenati in caccia della truffatrice che poco aggiungono, se non sul piano della durata complessiva del film, a quanto la vicenda sembrava promettere all’inizio. Sono personaggi che finiscono con l’essere funzionali solo a rocamboleschi inseguimenti e incidenti in auto e a produrre qualche risata di pancia che si collega con qualche difficoltà anche al finale in cui si cerca di ricondurre tutto sul piano della relazione umana che può, in qualche occasione, far superare anche i più legittimi pregiudizi. In definitiva abbiamo due bravi attori che debbono gestire due tipi di commedia in un solo film. Ci riescono, ma che fatica!

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