Archivio per la categoria Fantastici

THE LONE RANGER

John Reid è un uomo di legge, educato in città e tornato nel vecchio west per consegnare alla giustizia il pluricriminale Butch Cavendish. Durante la spedizione, però, un’imboscata uccide suo fratello, il Texas Ranger Dan Reid, e gli altri uomini della compagnia. John viene salvato da Tonto, un indiano, e da un cavallo bianco. I tre diverranno inseparabili.
Come inseparabili, nel contribuire alla nascita di questo esoso progetto cinematografico, sono stati Bruckheimer, Verbinski e Jhonny Depp: produttore, regista e interprete dei Pirati dei Caraibi. Ma, se è innegabile che lo stile sia quello (anche gli sceneggiatori sono gli stessi), in The Lone Ranger le derive più fracassone degli ultimi capitoli dei bucanieri restano fuori dai giochi e anche il personaggio di Depp gigioneggia di meno e non si avventura in parentesi solipsistiche ma serve il racconto, né più né meno del dovuto, quanto basta per dare a Tonto la dignità di partner alla pari del ranger, non più sua semplice spalla.
La coppia formata dal Cavaliere Solitario e da Tonto nasce all’inizio degli anni Trenta alla radio, per trasferirsi poi in televisione, sui fumetti e nei cartoni animati, accumulando una popolarità enorme. Verbinski e compagnia scrivono per immagini la storia di come John è arrivato a indossare la maschera, ma anche la genesi dell’avventura di Tonto, il come e perché si è allontanato dalla comunità ed è diventato un guerriero solitario. La struttura narrativa è sofisticata ma né complessa né ridondante e serve a tingere di leggenda ma soprattutto di nostalgia il racconto interno, la stessa nostalgia che il pubblico adulto associa inevitabilmente al titolo.
Più che ai Pirati, rispetto ai quali questo film si pone in continuità, prolungando il sapore del gioco infantile, è soprattutto a Rango che viene immediato (ri)guardare: non solo per l’ambientazione polverosa ma per la parabola del protagonista -eroe per caso, poi “smascherato” con dileggio e, infine, eroe per merito- e soprattutto per l’impianto narrativo (con il politico corrotto al centro della vicenda doppiogiochista).
Indiani e cowboy, ponti ferroviari e dinamite, bordelli e mitragliatrici, miniere d’argento e gambe d’avorio: al grande gioco del west non manca un tassello, il gusto dunque c’è, ma l’entusiasmo è moderato e a tratti lotta con la stanchezza. La fanfara rossiniana del Guglielmo Tell, sinonimo di libertà, assicura un finalone ma cozza con la sorte del vecchio Tonto, ridotto ad attrazione da museo, imprigionato nei pochi metri quadri di un’ambientazione ricostruita e posticcia. Il grande spettacolo del cinema classico non andrebbe lasciato alla polvere della cineteca, sembra dire Verbinski, se basta lo sguardo di un bambino a riportarlo in vita.

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THE HOST

Il nostro pianeta è stato invaso da una razza aliena di Anime, che hanno preso definitivamente possesso dei corpi dei terrestri. Il mondo è diventato pacifico, pulito, sono scomparse le malattie e i crimini, ma anche la quasi totalità degli esseri umani. I sopravvissuti vivono in clandestinità nel deserto. La giovane Melanie sta per raggiungerli, quando viene catturata da una “cercatrice”. Nel suo corpo prende posto un’anima chiamata Wanderer. L’amore di Melanie per il fidanzato Jared e per il fratellino Ian, però, è talmente forte che la sua voce non si lascia mettere a tacere e resiste nella mente di Wanderer, spingendola ad unirsi ai ribelli.
La fonte letteraria di The Host, com’è noto, è il romanzo omonimo di Stephenie Meyer e il film, nel bene e nel male, porta la stessa firma. Andrew Niccol pare limitarsi a ripetere gli errori di In time: innanzitutto restando in superficie su un soggetto che di spunti da offrire ne avrebbe avuti e sembrava anzi richiedere a gran voce l’intervento di un regista che volesse esplorarli con i mezzi del cinema, e in secondo luogo preoccupandosi di patinare un universo che non ha mai veramente costruito (visivamente e ideologicamente), così da farlo risuonare fastidiosamente vuoto.
Eppure la materia c’era. Per quanto lontana dalla fantascienza più sofisticata, l’idea che gli alieni all’interno del nostro stesso corpo possiamo essere proprio noi, la nostra coscienza umana con le sue pulsioni politicamente scorrette, è suggestiva quanto basta, come un caso di veglia in sede di anestesia totale. Solo che qui dura troppo poco. Non solo l’espediente di affidare a Melanie la voice over (interiore), costringendo la sua coinquilina a parlare da sola, non regge la durata del lungometraggio senza farsi ridicola, ma ben presto l’inquietudine fantascientifica lascia il posto al melodramma sguaiato. Anche in questo caso, in fondo, il danno è il modo. Nella vicenda folle di due donne in una, che amano due uomini diversi, un altro cinema, più delicato e analitico, avrebbe potuto alludere all’umana schizofrenia tra amore e desiderio, passione e ragione, invece The Host sceglie la via del calco tematico di Twilight, e dunque il triangolo (mascherato da quadrato impossibile), i finti pudori (con il terzo incomodo che si rifugia in nome della privacy “nell’altra stanza” della mente…), le “trasformazioni” in punto di morte. Rimane inoltre il mistero di una campagna promozionale che vorrebbe libro e film “per adulti” quando sono entrambi popolati di ventenni, in perfetta e non certo casuale continuità con i fortunati e vampireschi precedenti.

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IL CACCIATORE DI GIGANTI

Inviato a vendere il cavallo e il carro al mercato e tornato con solo dei fagioli in mano Jack è sgridato dallo zio che incautamente getta i fagioli nell’acqua causandone l’esplosione in una pianta gigantesca che si erge fino a sopra le nuvole. Come l’antica leggenda racconta, lì dove la pianta finisce ci sono i giganti, una razza che si nutre di umani, già un tempo scacciata dalla Terra e desiderosa di vendetta. Con molta fedeltà al formato originale e un piglio decisamente più scanzonato Bryan Singer e il suo sceneggiatore di fiducia Christopher McQuarrie (lo stesso di I soliti sospetti, come si vede dall’ossessione per le potenzialità di un racconto tramandato che diventa mitologia) hanno adattato la favola Jack e la pianta di fagioli, sulla scia di quanto fatto altrove con Alice in wonderland, Biancaneve e il cacciatore e Il grande e potente Oz (ma ancora prima da Terry Gilliam con I fratelli Grimm e l’incantevole strega, vero apripista, anche tematico, di questa tendenza), ovvero una rilettura più adulta di fiabe tradizionali. È in questo senso curioso come Singer abbia deciso di rifuggire il filtro “adulto” della produzione, mettendo in scena la favola senza abbellimenti cartooneschi ma anzi con qualche accenno splatter (comunque riservato ai cattivi e solo nel finale) senza snaturarne lo stile di base, come invece avevano fatto Tim Burton e Rupert Sanders puntando dritto al fantasy o Raimi trasformando la parabola di Oz in quella di un supereroe da fumetto. Il cacciatore di giganti è un favolone a tutti gli effetti, moderno nelle sembianze ma estremamente convenzionale nei contenuti, che conferma, promuove e reitera valori tradizionali, in cui la principessa ribelle vivrà un’avventura che funge da rito di passaggio per poi convolare alle più giuste nozze con un poverello che si dimostrerà eroe all’altezza del ruolo regale inizialmente preclusogli. I livelli di lettura sono ridotti al minimo e il target di riferimento è chiaro in ogni inquadratura dei giganti, ritratti con capigliature buffe, atteggiamento tendente al rivoltante corredato di peti e movenze clownesche che ne disinnescano il potenziale terrificante. Il genere cinematografico di riferimento è allora il più prossimo alla fiaba ovvero quello dell’avventura, confermato dal rapporto che i personaggi stringono con il luogo esotico e sconosciuto in cui approdano e dai tentativi di creare (purtroppo senza risultato) una visione originale di “eroismo”. Il film ha la sua falla maggiore proprio sul versante che avrebbe dovuto essere più solido, quello del comparto digitale. Fin dalla sequenza d’apertura (quella che con un’animazione racconta il prologo e getta le basi del mito dei giganti) è chiaro che non siamo di fronte ad un prodotto ricercato e le successive sequenze che mischiano reale e digitale lo confermano. Qualche raffinatezza come l’entrata in scena del primo gigante fatta alla medesima maniera in cui Fumito Ueda svela il suo primo colosso in Shadow of the colossus, o qualche inquadratura sugli umani dal punto di vista dei giganti che “davvero” applica il 3D per quello a cui serve (rinegoziare il rapporto che gli spettatori intrattengono con lo spazio filmico) serve a poco e soddisfa un pubblico che il resto del film lascerà probabilmente indifferente.

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IL GRANDE E POTENTE OZ

Oscar Diggs, detto Oz, è un mago da fiera e un seduttore, che illude spettatori e fanciulle con trucchetti da prestigiatore e promesse da marinaio. Balzato su una mongolfiera per sfuggire ad un rivale, si ritrova catapultato da un tornado nella fatata terra di Oz. Scopre così che il buon popolo di quel mondo lo crede il salvatore tanto atteso, che una profezia indica come un mago venuto dal cielo per sconfiggere la strega cattiva. Attratto dal tesoro reale in palio, Oz si mette in viaggio alla ricerca della strega, ma quello di mattoni gialli è soprattutto un sentiero morale, che lo allontanerà dall’egoismo di partenza e farà di lui una leggenda di magnanimità.
È sicuramente un sentiero particolare anche quello che ha portato Sam Raimi dall’horror indipendente a casa Disney ma, in questo caso, una segnaletica c’è, ben chiara, e reca la scritta “cinefilia”. Per il prequel del Mago di Oz, che narrativamente s’inserisce a suo modo nella fortunatissima corrente che sfrutta le backstories dei personaggi per dar loro nuova vita, Raimi è l’uomo giusto, perfetto per ibridare passato e presente, cinema di ieri e di domani, con un occhio di riguardo, questa volta, più al primo termine che al secondo.
Se è facile riscontrare una familiarità con certo Tim Burton, anche per la presenza alle musiche di Danny Elfmann e, sulla scena, di una coppia Franco-Raimi che fa sempre più pensare al sodalizio Depp-Burton, è evidente che lo spirito guida del  Grande e potente Oz  è però il film di Fleming, capolavoro per caso ma capolavoro assoluto. Dal Kansas in bianco e nero dell’inizio alla sequenza finale, dall’occhio del ciclone ai balletti di stagnini e quadrangoli alla creazione di un gruppo – il Mago, Finley, la fanciulla di porcellana, Glinda – che rispecchia quello dell’avventura originale, è chiaro che il confronto è stato volontariamente ricercato e mai rimosso. Al punto da funzionare da freno, poiché si resta col dubbio che una maggior libertà non avrebbe guastato.
Ma il regista è fedele al materiale di partenza anche e soprattutto dove non si vede: per esempio nell’uso degli effetti speciali, straordinari all’epoca e declinati in chiave più personale e orrorifica oggi che sono la norma; nel recupero del libro – la visita alla città di porcellana, ma anche gli occhiali dalle lenti verde smeraldo (che qui diventano un modo per ammiccare al pubblico, che ha indosso gli occhialini 3D); o nella fisionomia di Theodora dopo la trasformazione, che ricalca la Strega Malvagia dell’Ovest. Procedendo oltre su questo sentiero dorato e cinefilo, s’incontrano il Don Chisciotte di Orson Welles, l’elogio di Edison e del prassinoscopio, e, più in generale, una celebrazione esplicita e ripetuta (senza traccia di snobismo) della più grande delle illusioni, il Cinema, capace di fare di un piccolo uomo un grande e potente mago.

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WARM BODIES – L’AMORE PRENDE VITA

R è uno zombie. Si chiama solo con la prima lettera di quello che era il suo nome perchè non riesce più a ricordarlo, la vita da morto vivente gli ha gradualmente prosciugato la memoria e tolto l’entusiasmo verso qualsiasi cosa che non siano i bisogni primari della sua razza: ciondolare e cibarsi dei cervelli dei pochi umani rimasti. In una razzìa di gruppo ai danni di alcuni ragazzi in cerca di medicine, R incontra July e ha un colpo di fulmine, il primo sentimento che prova nella sua vita da zombie. Peccato che July sia non solo viva, ma anche figlia del generale che guida la resistenza contro i morti viventi.
Anche un corpo deceduto può provare sentimenti che elevino il suo animo al di sopra della routine di razzìe e gemiti. Con un movimento sentimentale solo nominalmente appartenente alla categoria di Twilight (lì i patemi sentimentali dei vampiri, qui di uno zombie ma le analogie, davvero, finiscono qui), Warm bodies strappa il filone postapocalittico dei morti viventi al cinema d’azione per esplorarne gli sconosciuti anfratti da teen movie sentimentale. Senza muovere un passo dalle regole e dai codici fissati in decenni di cinema dei morti viventi e anzi aggiungendo qualche invenzione (i morti viventi anelano e mangiano cervelli perchè masticandoli vivono i ricordi delle persone cui appartenevano, provando così una parvenza di sentimenti), Jonathan Levine tenta l’impresa impossibile di rendere attraente e romantico il corpo in decomposizione di uno zombie, creatura repellente e inespressiva per statuto. Se il tentativo alla fine appare riuscito solo in parte e non senza diverse forzature, di certo il risultato finale brilla per coerenza e senso del cinema, tanto che anche la voluta ed esibita similitudine con Romeo e Giulietta pare passare in secondo piano.
Già nell’omonimo libro di Isaac Marion la vita da morto che cammina era la metafora dell’esistenza anestetizzata dal sentimento di un outsider che cerca di conquistare il posto nel mondo che desidera dentro di sè, e proprio questa dicotomia tra un’interiorità vitale e un corpo morto e inespressivo (riproposta nel film attraverso l’uso di una voce narrante che è anche quella dei pensieri del protagonista) costituisce il segnale più chiaro dell’allegoria con il disagio giovanile. Il punto di contatto ultimo che ben si sposa con tutta una messa in scena che rimanda al cinema adolescenziale moderno.
Senza esagerare in nessuna direzione (nè nell’analisi psicologica, nè nel trattato sociologico) e con la ferma intenzione di non lasciare porte aperte a possibili sequel o saghe, Warm bodies fa un piccolo racconto dalle ambizioni audaci, non fortissimo sul fronte del romanticismo (i due amanti Teresa Palmer e Nicholas Hoult non hanno alcuna alchimia anche per ragioni di script) ma estremamente rispettoso della figura dello zombie, che se da una parte ne nega la dimensione di massa, dall’altra ne conferma la natura di rappresentazione della parte peggiore della società in maniera nuova. Come nei migliori film del genere infatti anche uscendo da Warm bodies il pensiero è che probabilmente siamo già morti viventi, anche senza un’epidemia apocalittica.

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CLOUD ATLAS

Sei storie si svolgono in parallelo anche se ambientate in sei epoche diverse, come se fossero presenti in un’unica dimensione senza tempo. A metà ottocento un avvocato americano si adopera contro la schiavitù, negli anni ’30 un giovane compositore bisessuale viene incastrato da un grandissimo autore presso il quale lavora, a San Francisco negli anni ’70 una giornalista cerca di svelare un complotto per la realizzazione di un reattore nucleare, ai giorni nostri in Inghilterra un anziano editore viene incastrato e internato in una casa di cura da cui cercherà di fuggire, nella Seul del 2144 un clone si unisce ai ribelli e scopre che quelle come lei sono utilizzate come cibo per altri fabbricati e infine nel 2321 in una Terra ridotta all’eta della pietra da una non ben identificata apocalisse un uomo entra in contatto con i pochi membri di una civiltà tecnologicamente avanzata e si ribella alla tribù dominante.
Il gigantesco progetto di Tom Tykwer, a cui si sono uniti in corsa (sia per la scrittura che per la regia) i fratelli Wachowsky, è il film più costoso della storia della Germania ed essendo stato realizzato senza l’aiuto di nessuna grande produzione è probabilmente anche il film indipendente più costoso di sempre.
Composto da sei storie legate da un filo immaginario e spirituale che riguarda i temi della reincarnazione, del transfer spirituale e di come un’azione rivoluzionaria sia un germe che si muove nel tempo generandone altre, Cloud Atlas adatta il romanzo omonimo di David Mitchell facendo ben attenzione a creare una narrazione sospesa che incroci le storie con gran senso del cinema. Anche per questo il cast di attori interpreta personaggi diversi (alle volte con trucchi che li rendono quasi irriconoscibili) in praticamente tutti e sei i segmenti.
Il montaggio delle diverse storie infatti non è per nulla regolare e salta di storia in storia inventando molto, alle volte lasciando diversi minuti ad ognuna, altre rimanendo con essa solo pochi secondi. L’idea è di riuscire a suggerire grazie alla giustapposizione del montaggio, il legame tra diverse epoche, diverse persone o diverse azioni. Spesso i momenti di rivelazione, di crisi, di fuga o di tensione di tutte le storie sono montati insieme e si svolgono così in un impossibile parallelo, in altri sembra che una trama completi quanto appena visto nell’altra storia.
È questa la componente più interessante di un film che per il resto sfrutta una dimensione visiva straordinaria e alcune grandi intuizioni per un racconto non a livello. Non sempre il ritmo è infatti all’altezza delle aspettative e molte svolte appaiono puerili e infantili nei loro risvolti o nelle proprie implicazioni. Cloud Atlas è un film grande, grosso e largamente imperfetto che spesso confonde i toni, facendo scivolare la necessaria dose di autoironia di un simile progetto in un grottesco fuori luogo.
I registi hanno lavorato separatamente e parallelamente con troupe diverse, Tom Tykwer occupandosi delle storie che si svolgono negli anni ’30, ’70 e nella modernità, mentre i Wachowsky all’opera sulle due storie future e su quella che si svolge nel XIX secolo. Il risultato purtroppo non è omogeneo e i segmenti in cui l’idea di fantascienza che permea tutto il film prende davvero corpo sono solo quelli dei due fratelli (negli altri siamo più dalle parti del thriller politico, del melò o della commedia grottesca). Intuizioni tipiche del loro cinema sono subito riconoscibili, come la gigantesca e impressionante “macelleria” in cui i corpi sono stipati simili a quarti di bue non diversa dalle piantagioni di umani di Matrix, e una visione di futuro affascinante e catalizzante è presente anche nella storia che si svolge nel passato.
Troppo poco purtroppo per un film di 172 minuti.

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LO HOBBIT-UN VIAGGIO INASPETTATO

Sessant’anni prima che Frodo desse inizio al suo viaggio verso Gran Burrone e oltre, suo zio Bilbo Baggins si godeva la calma della Contea e l’assenza di avventure (fastidiose scomode cose che fanno far tardi a cena) fino al giorno in cui Gandalf il Grigio non si presentò alla sua porta e lasciò su di essa un segno. Poco dopo, uno dopo l’altro 12 nani e il loro capo Thorin Scudodiquercia, prendevano possesso della casa dello hobbit Bilbo e della sua dispensa, per arruolarlo e partire con lui alla riconquista del vecchio regno dei nani, Erebor, da troppo tempo nelle grinfie del terribile drago Smaug.
Non sarebbe corretto citare la Trilogia dell’Anello per introdurre l’adattamento del primo libro di narrativa di Tolkien, che la precede di parecchi anni nella realtà e ancora di più nella finzione, se non fosse che è Peter Jackson stesso a farlo, inscenando una breve cornice nella quale Elijah Wood compare come traghettatore e tramite tra le due esperienze cinematografiche. E qui occorre fare una premessa, che contiene un appello. Se nel Signore degli Anelli il materiale per una trilogia c’era tutto – tanto che persino il romanzo era stato diviso in tre volumi prima di riconquistare l’unità voluta dal suo autore – nel caso dello Hobbit non si può dire lo stesso.
Più breve, leggero e non ancora carico di quell’epica e di quello straordinario lavoro sulla lingua e sul mondo che è la cifra della produzione a venire, Lo Hobbit, per soddisfare la misura scelta dei (prima due e poi) tre lungometraggi, ha richiesto un lavoro di sceneggiatura inedito, che, per i non filologi, non è di per sé una cattiva notizia (la parentesi bucolica con Radagast, per esempio, è “potteriana” ma affatto malvagia), peccato però che la cornice scricchioli e che questo primo film conti nel complesso un’unica sequenza realmente meritoria: l’incontro di Bilbo con Gollum. Qui c’è tutto quello che il film poteva essere e non è: il duetto tra due grandi attori, un dialogo finalmente brillante, la stretta dell’avventura e dell’ignoto, la necessità narrativa allo stato puro (con la comparsa dell’anello). Altrove, purtroppo, Jackson lotta invano per portare Lo Hobbit al regime di grandeur del Signore degli Anelli senza possedere gli strumenti di base per farlo, vale a dire un racconto altrettanto complesso e dei personaggi adatti. L’appello, allora, per non restare schiacciati dalla delusione, è quello di attendersi altro, di non cercare un prequel laddove non c’è e non ci dovrebbe essere, ma sfortunatamente il film non aiuta in questo senso e anzi confonde, tentando per esempio di calare a tratti la carta dell’umorismo su un tavolo troppo rigido e serioso per saperla accogliere.
Come se non bastasse, la tecnologia avanguardistica del 3D a 48 fotogrammi al secondo sortisce un risultato controproducente: l’altissima definizione azzera la magia della patina cinematografica, trasformando la profondità di campo in una sorta di effetto pop up che ricorda paradossalmente gli incerti effetti speciali d’antan dei film di fantascienza degli anni ’50/’60 o, più tristemente, le ricostruzioni televisive che conducono dentro l’infinitamente piccolo/grande. La sovrapposizione di un’immagine apparentemente artefatta su un racconto totalmente fantastico crea così una spiacevole saturazione e fa rimpiangere la precedente incursione di Jackson nella Terra di Mezzo, che invece brillava proprio per lo straordinario realismo. Poi l’occhio si abitua o la sceneggiatura migliora, di fatto il Viaggio Inaspettato si alza a fatica in piedi, ci mostra un occhio, giusto il tempo di acchiapparci per assicurarsi che non ci perdiamo la coda.

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20-12-2012 LA PROFEZIA DEI MAYA

L’ennesimo film documentario sulla profezia dei maya. Si avvicina sempre piu’ il 21 dicembre….Dove sarai????

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BIANCANEVE E IL CACCIATORE

Ravenna è una bambina strappata precocemente all’abbraccio della madre da un re malvagio e affamato di bellezza. Battezzata da un incantesimo e determinata a vendicarsi degli uomini, Ravenna cresce in potere, magia (nera) e beltà, disponendo eserciti di ombre, innamorando sovrani e rovinando regni. Incantato il padre di Biancaneve, vedovo dolente e sconsolato, ne diventa regina e padrona. Assassinato nel talamo nella prima notte d’amore, spegne il suo reame e rinchiude la sua bambina nella torre più fredda del castello. Gli anni passano e Biancaneve matura una bellezza che specchio e regina non possono davvero ignorare. Minaccia e insieme soluzione, il cuore di Biancaneve è una promessa di immortalità per Ravenna che ordina di condurla al suo cospetto. Ma la principessa trova la fuga e infila la via del bosco, vendendosi care pelle e cuore. Assoldato un cacciatore ebbro e impulsivo, la perfida Ravenna lo lancerà all’inseguimento della fuggitiva, perduta in una foresta ostile, dove la soccorreranno nani, fatine, principi pallidi e cervi radiosi.
Un film (Biancaneve), un c’era una volta e una mela avvelenata dopo, arriva in sala la Biancaneve di Rupert Sanders ed è subito sfida tra ‘belle del reame’. Se la bellezza rossa e svettante di Julia Roberts è minacciata da quella minuta e lunare di Lily Collins, quella bionda e folgorante di Charlize Theron è provocata da quella pallida e introversa di Kristen Stewart, di nuovo contesa in un triangolo, di nuovo condivisa nel talamo.
Ieri erano un vampiro e un licantropo (Twilight), domani saranno uno scrittore e un fedifrago (On the Road), oggi sono un principe e un cacciatore, che ha smesso l’abito di Thor ma ha conservato l’appeal degli dei. Lasciando allo specchio magico e al Paride mitologico giudizio e conferimento di ‘mela’ e titolo, sfuggiamo la tentazione di eleggere ‘la più bella’ evidenziando l’implacabile sistema competitivo che muove Biancaneve e il cacciatore, film indeciso tra fiaba e fantasy, tra fedeltà e tradimento. Come nelle pagine dei fratelli Grimm, Biancaneve si ‘raccomanda’ a Dio ma al contrario dell’originale cade in tentazione una volta sola mordendo la mela, si lascia baciare da due ‘principi’, combatte dentro un’armatura e alla maniera di Giovanna d’Arco contro una regina ‘posseduta’ e liberata come un nosferatu con una stilettata al cuore.
Seguendo la tendenza di tanto cinema contemporaneo a rinnovare il repertorio dei classici, Sanders pesca nel pozzo fiabesco dei Grimm e realizza un film in costume contraddistinto da modifiche sostanziali nella caratterizzazione dei personaggi e nella struttura stessa dello sviluppo narrativo. Più interessanti degli esiti sono i ‘ritocchi’ che nelle recenti riedizioni ‘riformano’ l’eroina ‘bianca come la neve e bruna come l’ebano’. Sopravvissuta all’immancabile mela, grazie a un bacio o a un rigetto miracolistico, Biancaneve è una guerriera, laica per Tarsem Singh, cristiana per Rupert Sanders, una fanciulla in fiore che s’inventa una nuova identità, rivolgendosi con determinazione a un pubblico femminile a cui nega (quasi) ogni gratificazione consueta. Perché, che siano nani ‘trampolati’ o un cacciatore potente come un ‘tuono’, Biancaneve viene addestrata all’arte della guerra, compiendo la sua ascesa sociale a colpi di spada e di (buona) volontà. Nessun principe azzurro canonico spalleggia la principessa di Kristen Stewart, piuttosto un team di natural born losers (sette nani minatori convertiti al furto e un cacciatore vedovo e sbronzo) lanciati contro le ingiustizie e i tempi correnti, quando i ‘cattivi’ non basta più sgominarli ma bisogna anche ‘capirli’. Si costruiscono allora psicologie ben definite e background fantasiosi a figure trascurate (ma non trascurabili), attribuendo loro un nome, un passato e un trauma che ne giustifichi la monomania (Ravenna), la cialtroneria (Eric), la furfanteria (i sette nani).
Se convince la final girl forte delle sue debolezze, votata alle scelte estreme, ‘do or die’, e proiettata verso lo scontro uno a uno con la strega nera, una ‘superba’ Charlize Theron, barbara massacratrice di ‘figlie’, l’illustrazione del trascorso traumatico della matrigna, del cacciatore e dei nani (cavatori ripudiati dalla società civile), priva lo spettatore della possibilità di interpretare, producendo ridicolo involontario e profondità dove non se ne sentiva il bisogno. La voglia di piacere troppo spesso rovina la favola e la bella della favola.

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DARK SHADOWS

metà del XIII° secolo, i coniugi Collins e il figlioletto Barnabas salpano dall’Inghilterra alla volta del Maine, dove avviano un impero commerciale e favoriscono la nascita di una cittadina che porta il loro nome: Collinsport. Anni dopo, Barnabas è un giovin signore ricco e di bell’aspetto, che s’innamora perdutamente della dolce Josette e infrange così il cuore di Angelique Bouchard, che lo aveva servito e adorato. Assetata di vendetta, Angelique, che è una potente strega, lo tramuta in vampiro e lo fa seppellire vivo. Al suo risveglio, nel 1972, Barnabas scopre che il suo maniero e la sua famiglia sono andati in rovina e che l’intera città vive nel mito dell’intraprendente Angie, imprenditrice di successo e vecchia conoscenza di Barnabas.
Basandosi su una sceneggiatura di Seth Grahame-Smith (l’autore di “Orgoglio e Pregiudizio e Zombie”) e sulla serie televisiva di Dan Curtis (1966-1971), Tim Burton realizza con Dark Shadows un film visivamente ricchissimo ma anche pieno di “spirito”. Se del regista si è soliti apprezzare la passione per l’inconsueto, questa incursione nel terreno dei vampiri, che dire di moda è dire poco, può lasciare esitanti, ma non solo Burton con questo lavoro torna “a casa”, ma dimostra ad ogni inquadratura di essere superiore alle mode, anzi, ad esser precisi, di trovarle curiose.
Mai come questa volta ci troviamo in un mondo popolato di creature simili tra loro, almeno apparentemente. Per ragioni diverse (l’età ingrata, il vizio dell’alcol, la capacità di vedere i fantasmi o la natura vampiresca) i Collins e i loro entourage sono tutti strani, chi più chi meno. Lo sono e basta, come i componenti della famiglia Addams. Ma all’interno di questo mondo e di quest’epoca in cui la bizzarria è quasi la normalità, Burton opera i distinguo che fanno battere il cuore al suo film: perché non tutti i mostri sono uguali e non tutti sono mostri allo stesso modo.
All’horror alla James Whale, al melodramma kitsch e soap-operistico, Burton aggiunge un ingrediente (estraneo all’originale televisivo) senza il quale questo film non sarebbe lo stesso, nemmeno lontanamente: un leggero e purissimo umorismo. Le unghie di Barnabas che testano l’asfalto, la sua brama per la lava rossa nella lampada, la sua perplessità per Scooby Doo, o gli hippies in brodo di giuggiole per Eric Segal, sono la testimonianza del divertimento che Burton ha sperimentato preparando e girando. E noi ci divertiamo con lui, assistendo alla resurrezione dalle tenebre del piacere dello spettacolo cinematografico, lo stesso piacere del ragazzino che gioca a rifare i film mettendoci del suo (e quando si parla di Tim Burton, il “suo” è tantissimo).
La sensazione è che, oltre questa summa barocca di generi, ispirazioni (pittoriche e cinematografiche, lontane e vicine), gusti e personaggi, Burton non potrà, forse, che ricominciare da qualcosa di davvero altro. Attendiamo con rinfrescato interesse.

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