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HUNGER GAMES – LA RAGAZZA DI FUOCO

Ritrovati i loro cari e il loro distretto, Katniss e Peeta si preparano al tour e alla gloria che li attende a ogni stazione. Partita suo malgrado e sotto la minaccia del Presidente Snow, che la scopre innamorata di Gale, Katniss si accorge molto presto di aver acceso la speranza nel cuore della gente di Panem. Accolta come un’eroina piuttosto che una star, Katniss morde il freno ma il ricatto di Snow la costringe a giocare il suo ruolo e a distrarre il popolo dai problemi reali. Temeraria e sfrontata, Katniss cresce tuttavia in fascino e ascendente. Allarmato dal suo credito, Snow decide di diffamarlo, a ogni costo, con ogni mezzo. L’incarico viene affidato a Plutarch Heavensbee, stratega volontario che ha sostituito il ‘dimissionario’ Seneca Crane. L’idea è quella di indire un’edizione straordinaria dei giochi in cui concorreranno i vincitori delle edizioni precedenti. Katniss e Peeta, di nuovo uniti e di nuovo in gara, emergono su un’isola tropicale, circondata da un campo di forza e piena di insidie. Stabilite rapidamente alleanze e ostilità, i due ragazzi cercano di sopravvivere. Ma questa volta Katniss e Peeta non sono soli. La ghiandaia imitatrice ha spalancato le ali.
La trilogia di Suzanne Collins, che biasima la società dello spettacolo e sottrae ogni alibi e pretesa innocenza alla nostra identità di spettatori, è giunta sullo schermo al suo secondo atto, riprendendo il respiro là dove l’aveva trattenuto. Un anno e un’edizione dopo gli hunger games tornano nell’arena per smascherare il vuoto che ci resta al di là del pieno della televisione. Al centro brilla la loro stella più luminosa, archetipo eroico, quello della guerriera, ridotto a meccanismo ludico. Ritrovati Jennifer Lawrence e Josh Hutcherson, Francis Lawrence succede a Gary Ross, ribadendo con lo spettacolo la dimensione morale. Meno risolto e coerente del primo, Hunger Games: La ragazza di fuoco è nondimeno un efficace episodio di passaggio che si fa carico delle premesse del primo, sottintendendo la rivoluzione e preparando l’epilogo. Intrepida e rutilante, Jennifer Lawrence incarna ancora una volta il sacrificio e ancora una volta lo rimanda, permettendo a chi la osserva, al di qua e al di là dello schermo, di ragionare sullo spettacolo come linguaggio in grado di mettere in circolo il potere. Katniss, attrice condannata a essere solo un oggetto scopico passivo, rivendica adesso il diritto a ritornare soggetto dentro una sequenza di grande bellezza, in cui sfonda il confine del mondo (artificioso) e rivolge il proprio sguardo sulla rappresentazione che contribuisce a realizzare. Sorteggiata per innescare la paura e il consumo, l’eroina di Suzanne Collins ispira la rivoluzione e come il guerriero di De André tira una freccia al cielo per farlo respirare. Di là poi c’è il buio che chiude sui suoi occhi spalancati e promette un posto in cui (ri)nascono le immagini. Perché quello che può spezzare la catena è la capacità (e la volontà) di riconquistare la propria immagine. Per sé e per il popolo di Panem, che ha declinato lo speculare circenses, dove i suoi figli vengono mietuti e ‘tributati’ senza onore al pubblico di Capitol City. Blockbuster ‘di cuore’, pieno di trucchi e di sorprese, feste pirotecniche e meraviglie barocche, Hunger Games: La ragazza di fuoco è una fantasmagoria costruita sulla produzione di morte ‘vera’. Morte che ci attrae nella sua barbarie, che ci inchioda proprio come accade con il film di Francis Lawrence. Cinema della cattività, che aspira a realizzare una parabola fantascientifica sullo spettatore e sul bisogno di fruire sempre e solo di un’eccitazione continua. Il bello e il vero sono appannaggio di Katniss, che ha frecce al proprio arco per ridiventare soggetto di visione.

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THOR – THE DARK WORLD

Con il fratello Loki imprigionato dopo i fattacci narrati in Avengers e i nove mondi pacificati, Thor nei grandi palazzi di Asgard ha tempo di perdersi appresso alla nostalgia amorosa che da due anni lo separa dall’umana conosciuta nel primo film. Nel frattempo lei, sulla Terra, studiando delle anomalie comparse a Londra viene risucchiata da un portale e contaminata dall’Aether, una forza da millenni nascosta al malvagio Malekith e la sua razza che, proprio per l’unione tra la terrestre e la sostanza, si risveglia.
Determinato a trovare l’Aether e con questo sfruttare l’allineamento dei nove mondi per instaurare un regno d’oscurità, Malekith marcia per annichilire innanzitutto Asgard e poi la Terra.
Con Thor: the dark world parte la “seconda stagione” dei Vendicatori, quella che passerà per il secondo film di Capitan America, I guardiani della galassia e altri fino a giungere a Avengers: Age of Ultron. La serializzazione del cinema di grande incasso compie un nuovo passo in avanti in questo senso e i Marvel Studios dimostrano di ragionare come la casa editrice di fumetti che sono, trattando ogni film come un albo, portando avanti una trama autoconclusiva assieme a una sottotrama più grande che confluirà nel film che riunisce tutti i personaggi, ovvero il “finale di stagione”.
Di certo dopo un primo fiacchissimo film incautamente affidato a Kenneth Branagh, Thor ha ora un trattamento a livello degli altri supereroi Marvel, con un film che non si perde nel cercare di elevare la materia che tratta ma che invece ne cavalca la sua componente più facile ed immediata per trovare l’intrattenimento e il divertimento più genuini. Merito di un team creativo che proviene dalla serialità televisiva e molto a suo agio con i personaggi Marvel.
È proprio questa resa al tono e al mood dei fumetti seriali americani di grande tiratura la caratteristica più evidente di questo nuovo film Marvel Studios. Se fino a ieri erano l’Hulk di Ang Lee o Scott Pilgrim vs. the world di Edgar Wright gli esempi più interessanti di fusione tra linguaggio del cinema e dei fumetti, adesso il cinema Marvel sta cercando un altro percorso per questa fusione e non intende farlo passando per montaggio o replica del sistema “a tavole” ma passando per la leggerezza e frivolezza con cui si raccontano apocalissi indicibili e per il rapporto che la storia instaura con lo spettatore. Non è difficile infatti intravedere in Thor: the dark world le fantasie di onnipotenza (vivere la vita reale e risolvere problemi reali con poteri immaginari) che si trovano anche in Spider-Man o negli X-Men (fumetti e film) e che mancavano al film precedente, il segno più evidente di un rinnovato approccio più in linea con il target d’elezione.

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ESCAPE PLAN – FUGA DALL’INFERNO

Ray Breslin è un esperto mondiale di sicurezza delle strutture carcerarie, tanto che ha passato metà della propria vita ad evadere dalle prigioni nelle quali era entrato sotto copertura, per provarne le falle. Proprio quando sta pensando di ritirarsi, un’offerta senza precedenti lo spinge ad accettare un ultimo incarico: testare il penitenziario segreto di massima sicurezza detto “la Tomba”. Ingannato e incastrato, Breslin sembra condannato a restare sepolto vivo, ma la complicità con il detenuto Rottmayer lo motiva a non desistere.
C’è qualcosa di romantico, che eleva e sabota allo stesso tempo Escape Plan. La vecchia coppia Stallone-Schwarzenegger, che ha passato anni a gareggiare sul centimetro in più di rigonfiamento del supinatore e si trova oggi a fare colazione insieme in prigione, costruendo bussole di carta sotto il banco e inscenando una scazzottata per amore dei fan, ispira una tenerezza che finisce per smorzare l’impatto di un contesto effettivamente da incubo, in cui i diritti umani non esistono, le guardie non hanno volto, la sentenza non ha appello possibile e la natura privata e segreta di questo brevetto di morte ne assicura l’invisibilità assoluta.
Allo stesso tempo, però, quest’aura da vecchi tempi (e modi del cinema), fatta di stratagemmi alla Lupin e prove fisiche da supereroi senz’armatura, dà sapore ed entusiasmo ad uno script ben poco verosimile, nel quale l’evasione del prologo -che serve unicamente a presentare il personaggio di Sly- è quasi più complessa e incredibile di quella al centro del racconto.
E non sono nemmeno i colpi di scena (o supposti tali) a tenerci attaccati allo schermo, ma piuttosto quel carattere di umanesimo, più ingenuo che retorico, che Stallone infonde da sempre alle operazioni cui partecipa e che ben si abbina al tocco più leggero del suo partner. Non è il regista, dunque, a fare la differenza, non il copione né l’ambientazione suggestiva (ricreata all’interno di una mega struttura della NASA a New Orleans): ancora una volta, come nei “Mercenari”, è una questione di spirito. Stallone e Schwarzy incarnano letteralmente, nei loro corpi forti ma provati, lo spirito di chi non si arrende, offrendo allo script un senso che nessun’altra star, più giovane e prestante, avrebbe potuto offrire. Di più non si può chiedere; non si va oltre l’intrattenimento in tempo reale, ma la nota romantica ne fa un film paradossalmente più duro di quanto avrebbe fatto la sola nota fisica.

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RUSH

L’austriaco Niki Lauda e l’inglese James Hunt s’incontrano per la prima volta sui circuiti di Formula 3. Uno è metodico, razionale, non particolarmente simpatico; l’altro è un playboy, che si gode la vita e corre come se non ci fosse un domani. La loro rivalità diverrà storica e segnerà una stagione incredibile della Formula 1, fatta di drammi indelebili e miracolose riprese.
Come spesso accade con il miglior cinema classico americano, è il contributo delle parti a fare il tutto, ma è un tutto che poi si presenta compatto e coerente, non più smontabile e perfettamente aerodinamico, per restare in tema. La sceneggiatura di Peter Morgan è buona, ma non garantirebbe il risultato se non ci fossero le sfumature portate dagli attori, i loro sguardi, le loro ombre: un capitale che in questo lavoro pesa moltissimo, responsabile del mistero umano dietro i fatti storici e mediatici, che il copione da solo non arriva a disegnare, nemmeno laddove si arrischia in territori arditi e scivolosi, come la chiosa esplicita o la conclusione letteraria. Scrittura e interpretazione, a loro volta, non sarebbero sufficienti se non si combinassero con il lavoro ispirato di scenografi e costumisti, con una produzione europea di grande rispetto (già meritoria del documentario Senna di Asif Kapadia) e soprattutto con una regia in qualche modo “profana” come questa. L’estraneità di Ron Howard al mondo della Formula 1, infatti, che fino ad ora non rientrava nei suoi interessi né nelle sue conoscenze, è probabilmente il quid che suggella la combinazione ottimale delle parti nella confezione del tutto.
Evidentemente incapace di affezionarsi al dettaglio meccanico così come alla passione propriamente sportiva, elementi comunque interni e organici alla vicenda, Howard evita in un sol colpo ogni pit stop a rischio di retorica, concentrandosi solo e soltanto sul vampirismo reciproco tra i “duellanti” in gara e realizzando uno dei suoi film migliori, vivace, pulito, lanciato dritto alla meta.
Sexy e dannati come rockstars, novelli Icaro con una bara ambulante al posto delle ali -per assaporare l’ebbrezza del volo (James “Thor” Hunt) o sfidare il demiurgo sul terreno stesso della creazione (Lauda si occupava personalmente delle migliorìe alla vettura)-, Hunt e Lauda servono al regista come Caino e Abele, archetipi di una doppiezza in cui i termini si definiscono solo reciprocamente, per contrasto, ma anche per narrare con i mezzi dell’oggi la storia di un passato che non c’è più, dove l’individuo era ancora al centro della pista ed era il suo carisma o il suo capriccio a decidere la gara, non lo sponsor né la dittatura della televisione.

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RIDDICK – DOMINA L’OSCURITA’

Il ricercato Richard Riddick, che abbiamo già incontrato in Pitch Black e The Chronicles of Riddick, si ritrova su un pianeta brullo e popolato da bestie feroci, lontano da casa e alla mercé dei cacciatori di taglie dell’intera galassia. Il suo obiettivo è ritornare al pianeta Furya e a renderlo possibile, ma anche a mettere in pericolo la sua vita, sono due gruppi di mercenari atterrati proprio allo scopo di catturare Riddick, guidati l’uno dallo psicopatico Santana, l’altro da Johns, combattente intergalattico che ha con il ricercato un antico conto da saldare.
Ancora una volta quella di Riddick è la parabola dell’uomo solo contro un mondo spietato, impegnato a sopravvivere in un universo oscuro nel quale si muove con agilità dopo aver modificato chirurgicamente gli occhi, che ora possono contare su una sorta di visione a raggi infrarossi. Una metafora potente per i nostri tempi bui e la nostra epoca individualista che, nell’episodio iniziale della saga, si era tradotta in un B movie originale e divertente, anche grazie al modesto budget che spingeva il regista David Twohy ad “arrangiarsi” in modo creativo.
Con l’aumento di budget il secondo capitolo si era adagiato sui cliché sacrificando lo spirito irriverente e iconoclasta di Pitch Black al conformismo hollywoodiano. In questo terzo episodio Twohy cerca una difficile sintesi fra lo spirito del B movie originale, evidente nell’ironia con cui vengono descritti i personaggi, e la necessità commerciale di confezionare un blockbuster globalizzato. Il metro con cui Twohy sembra aver concepito questo Riddick è il gusto del quattordicenne cresciuto a videogame: ci sono le scazzottature con i mostri alieni, le armi da fuoco e da taglio gigantesche, le moto spaziali, le donne da calendario (una delle quali è una lesbica da “convertire”), il sangue che sgorga a fiotti.
Un universo preadolescenziale in cui Riddick si aggira esprimendosi per frasi fatte, rivolgendosi prevalentemente a se stesso e confrontandosi con creature delle quali sottolinea immancabilmente l’inferiorità, come fa ogni teenager arrabbiato col mondo. E’ un incrocio fra un supereroe e una divinità mitologica che sopravvive ad ogni traversia e quando è ferito si autoinfligge medicazioni alla Rambo. E poiché nell’episodio precedente si è fatto “cogliere alle spalle”, in questa puntata Riddick decide di ritrovare il suo istinto animale e la sua ferocia ferina: peccato che il finale, che non riveliamo, contraddica questa premessa e tradisca l’essenza autarchica del suo personaggio.
I cattivi, cui è dedicata buona parte della trama (curioso come Vin Diesel, che presta la sua fisicità imponente a Riddick ed è anche coproduttore della saga, sia assente da gran parte di questo episodio), sono una corte di miracoli di sprovveduti, a cominciare dal Santana che Jordi Mollà interpreta come un incrocio fra il Monnezza e Willy Coyote. Nella parte loro dedicata il film sconfina ampiamente nella parodia camp e si presta ad infinite citazioni (“Dì qualcosa di biblico su questi corpi”). Totalmente relegato alle fantasie onanistiche, infine, il personaggio di Dahl, la guerriera che “non fotte gli uomini perché non ce n’è uno che ne valga la pena”.

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SOTTO ASSEDIO

Durante una visita guidata dentro la Casa Bianca dell’aspirante agente della sicurezza Cale e sua figlia, un gruppo di uomini armati e ben coordinati conquista l’edificio e prende in ostaggio il presidente Sawyer, uccidendo o lasciando scappare tutti gli altri. Tutti tranne Cale, rimasto dentro per recuperare la figlia chiusa in bagno durante l’attacco. In breve Cale diventerà l’unica speranza del governo degli Stati Uniti di salvare il presidente ed evitare che tutta la zona venga rasa al suolo, per impedire il lancio non autorizzato di testate nucleari verso altre potenze.
Solo 3 mesi dopo Attacco al potere (5 per la distribuzione italiana) Hollywood racconta nuovamente di un assedio dentro la Casa Bianca in cui un presidente giovane, un esperto di sicurezza e un bambino/bambina devono difendersi da un gruppo armato e possibilmente scappare, mentre fuori il mondo guarda impotente. Come spesso capita la concomitanza di due film così simili in così poco tempo è frutto di spionaggio industriale negli studios (impossibile dire da chi ai danni di chi) o di un eccessivo circolare delle sceneggiature, tuttavia è anche la più evidente dimostrazione dell’effetto che un quinquennio di amministrazione Obama ha avuto sulla percezione della figura del Presidente.
In particolare Sotto assedio organizza la storia rimandando esplicitamente al presidente in carica e, con molta più determinata follia, ritagliandogli l’inedito ruolo di buddy cop. Per buona parte del film infatti il classico eroe alla sua seconda occasione di Channing Tatum fa coppia con il presidente sui toni dell’action comedy classica, schiena contro schiena a sparare ai criminali che minacciano la libertà. Se dunque l’eroismo del primo cittadino d’America non è certo una novità (e nemmeno il percepirlo come improbabile uomo d’azione), di certo è nuova la vicinanza alle persone, la totale distruzione dell’aura mitica che lo circonda, fino a renderlo un uomo comicamente ridicolo che cerca di sparare con un fucile di cui non conosce il funzionamento.
Il secondo elemento che Sotto assedio dimostra (visto in coppia con Attacco al potere) è la stanchezza di questo tipo di storie, il loro essere fuori dal tempo. A prescindere dal quoziente di intrattenimento che riescono a generare, entrambi appaiono come film provenienti da un’altra era del cinema. In Attacco al potere si recupera la minaccia comunista attraverso la Corea del Nord, in Sotto assedio tutto il comparto visivo rimanda ad un’estetica da anni ’90. Il malvagio hacker deviato, genio della matematica contornato da computer blu che mostrano improbabili scritte in una stanza buia illuminata da tagli di luce sembra ripescato da un’epoca in cui dominava una diversa percezione dell’informatica (quella di 007 Goldeneye, per dire), alla stessa maniera del capo della sicurezza con taglio da marine in lutto per il figlio morto in guerra, del grande movente che si scoprirà alla fine o della stessa distruzione della Casa Bianca, classica del cinema sempre e comunque catastrofico di Emmerich, che proviene dal suo stesso Independence day.
Eppure al netto della grande distruzione il film di Emmerich rifiuta le potenzialità di vero e proprio “cinema d’assedio” e cerca sempre di liberare i propri protagonisti anzitempo. Molto dell’azione infatti si svolge all’aperto, nei giardini della Casa Bianca o sui tetti, e poco nei condotti o nelle stanze, spostando il conflitto in grandi spazi per evitare la claustrofobia. La scelta non sembra giovare al film, allontanandolo dalle promesse del trailer e riconducendolo su binari buoni per qualsiasi tipo di trama d’azione.

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PERCY JACKSON E GLI DEI DELL’OLIMPO – IL MARE DEI MOSTRI

Un anno è passato da quanto Percy Jackson ha scoperto di essere un semidio figlio di Poseidone e dimostrato a tutti di non aver rubato lui il fulmine di Zeus, nulla è più successo così al campo addestramento per semidei comincia a pensare di non essere il fenomeno che sembrava. Proprio a quel punto un toro meccanico sfonda la barriera magica che proteggeva il campo, un protezione generata da un albero nato su una bambina che si era sacrificata per il bene altrui. Per rimettere le cose a posto bisogna andare a recuperare il vello d’oro nel mare dei mostri, l’unico oggetto in grado di salvare albero, barriera e campo.
Il secondo film tratto dai libri di Rick Riordan rivede tutto il team creativo che aveva fatto esordire Percy Jackson al cinema. Appoggiandosi sempre ad un regista ed uno scrittore con esperienza nel cinema per bambini e ragazzi Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo: Il mare dei mostri, si distanzia molto più del precedente dalla matrice letteraria, ne rielabora gli elementi chiave attenuandone i tratti palesemente calcati sull’Odissea ed enfatizzandone la componente di commedia. Dunque se la saga cinematografica a cui Percy Jackson più si rifà (Harry Potter) con il procedere dei capitoli ha aumentato la parte seria e drammatica, le scelte della 20th Century Fox sembrano muoversi nella direzione opposta.
Questo secondo film appare decisamente più scanzonato, divertito e intento a prendere in giro e scatenare risate (innumerevoli le comparsate ad effetto e autoreferenziali come quella di Nathan Fillion) che a mettere in scena un racconto coinvolgente. Le tematiche sono le più consuete (una paternità non risolta, l’accettazione del diverso, il superamento dei propri limiti) mentre è sempre più presente e tangibile la contaminazione con la modernità.
Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo: il mare dei mostri infatti rimarca con ancora più forza la componente chiave del primo film, il fatto che le avventure del semidio strappato ad una vita normale si svolgano nel nostro mondo, con le nostre apparecchiature tecnologiche, i nostri luoghi geografici e via dicendo. Sono gli stilemi dell’urban fantasy (genere prettamente letterario a cui appartengono anche altri film tratti da libri visti recentemente come Beautiful Creatures o Shadowhunters e in un certo senso la saga di Twilight): trasfigurare la geografia reale, principalmente americana, in un mondo fantastico, immaginando l’esistenza di un altro ordine civile, legato a creature mitologiche (siano gli dei dell’Olimpo o i vampiri), che camminano accanto alle ignare persone comuni. I mondi paralleli dell’urban fantasy esistono assieme a quelli normali, solitamente ad un livello di coscienza superiore (non solo possono fare più cose e hanno una vita più avventurosa ma a differenza degli umani sono consci dell’esistenza di due mondi e non pensano ci sia solo il loro), e di volta in volta rappresentano per i protagonisti la presa di coscienza della loro vera natura e di un certo numero di responsabilità, dunque il passaggio all’età adulta.
Il vero problema del film però pare proprio il nuovo regista, Thor Freudenthal. Con un immaginario da serie televisiva anni ’90 a basso budget, un impianto realizzativo al di sotto del livello qualitativo auspicabile e decisamente una bassa abilità nel raccordare scene e momenti topici, il secondo film di Percy Jackson non riesce nemmeno ad essere piacevolmente banale come quello di Columbus ma arranca nel mettere insieme i momenti epici con quelli sentimentali con quelli drammatici e, cosa forse ancor più grave visto il genere, fonde male computer grafica, effetti pratici, trucco e protesi, creando così un mondo fantastico implausibile dai riferimenti eterogenei e mal amalgamati.

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SHADOWHUNTERS – LA CITTA’ DI OSSA

Clary Fray è una ragazza della Brooklyn contemporanea che vede ovunque simboli misteriosi e presenze inspiegabili. La madre non l’ha avvertita del suo imminente incontro con gli Shadowhunters, i cacciatori di demoni che popolano un mondo parallelo e con i quali Clary ha un legame ancestrale. Starà alla ragazza, accompagnata dall’amico nerd Simon, scoprire il proprio coinvolgimento nella battaglia contro il Male. E l’incontro con Jace, un affascinante Shadowhunter, darà un’ulteriore svolta alla sua esistenza.
Primo film dedicato alla saga letteraria firmata da Cassandra Clare, Shadowhunters – Città di ossa rientra a pieno titolo in un genere narrativo, e dunque anche cinematografico, a sé: il racconto di iniziazione giovanile che è anche un “viaggio dell’eroe” all’interno di un mondo popolato da creature solo parzialmente di fantasia poiché, come si dice in Shadowhunters, “tutte le favole sono vere”.
Esattamente come le fiabe (soprattutto quelle nere), Shadowhunters costituisce contemporaneamente un esorcismo delle paure giovanili e una lusinga dell’aspirazione all’onnipotenza per una generazione che, nella realtà, si sente oppressa da quelle che l’hanno preceduta. Infatti, come già nella saga di Harry Potter, anche qui gli adulti sono infidi e pronti ad abdicare alle proprie responsabilità di protezione e guida dei giovani, i quali dunque decidono di proteggersi da soli, spesso difendendosi proprio dai “grandi” preposti alla loro tutela. Shadowhunters riserva particolare attenzione all’inaffidabilità dei padri: senza scendere in dettagli, Clary scoprirà che tanto il genitore biologico quanto il patrigno nascondono parecchi segreti, e dovrà decidere se e quando dare loro credito.
Come nella saga di Twilight, anche in Shadowhunters c’è un triangolo amoroso, esacerbato da una scoperta scottante che ha a che fare con i legami famigliari di Clary: da una parte il “mondano” (cioè umano) Simon, innamorato da sempre della sua “migliore amica”, dall’altra il cacciatore Jace. Come in Twilight, uno dei pretendenti tiene ancorata Clary alle sue radici, l’altro la trascina verso il suo destino.
Il parallelo con la saga di Twilight si accentua grazie al casting, che vede Lily Collins (figlia del batterista e cantante Phil) nel ruolo della “ragazza qualunque” scelta per favorire l’identificazione delle spettatrici, e Jamie Campbell Bower, reduce sia daTwilight, dove era il volturo Caius, che da Harry Potter, dove era Gellert Grindelwald, nei panni del tenebroso Jace.
Il tono è stuzzicante ma mai esplicitamente sessuale, spaventoso ma sempre attento a non sconfinare nel divieto ai minori, con un’apertura a temi che riguardano i legami di sangue assai più perturbanti della presenza di streghe e vampiri.
Le scene di azione e gli effetti speciali, in mano al regista norvegese Harald Zwarth, seguono la falsariga della recente scuola europea che abbina la fiaba all’orrore (vedi Hansel e Gretel – Cacciatori di streghe del connazionale Tommy Wirkola) mantenendosi in equilibrio fra i confini riconoscibili e rassicuranti di New York e le passeggiate sull’orlo del baratro di universi atavici e tabù primordiali.
Anche il linguaggio si colloca a metà fra narrazione fantastica e cultura pop, con continui riferimenti all’attualità e all’immaginario collettivo che stemperano la tensione e colorano di autoironia una vicenda intenta a mettere alla prova la nostra capacità di sospensione dell’incredulità.
Shadowhunters fa inoltre parte del recente filone cinematografico dedicato all’empowerment femminile, concentrato soprattutto nei settori animazione (Ribelle) e teenage movie. La creazione di nuove eroine e la rivisitazione delle fiabe classiche in chiave postfemminista (vedi la Biancaneve di Tarsem Singh con protagonista proprio Lily Collins) insegnano alle ragazzine ad avere fiducia nei propri “poteri nascosti” e a diventare protagoniste della propria esistenza, senza aspettare il principe azzurro. Peccato per l’insistenza sul triangolo amoroso che certamente gratifica il lato romantico delle spettatrici, ma rende meno radicale la traiettoria cinematografica dell’emancipazione femminile.

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ELYSIUM

Nella Los Angeles del 2154 l’umanità rimasta sulla Terra è un’unica grande classe operaia, che mescola criminali e lavoratori senza criterio, tutti tenuti a bada e dominati con pugno di ferro attraverso i robot da un’elite che da tempo è andata a vivere su una stazione orbitante intorno al pianeta chiamata Elysium. Su Elysium c’è la tecnologia per guarire da ogni malattia, c’è il verde, il benessere e il disinteresse per ciò che accade più in basso, sulla Terra, dove il resto dell’umanità lavora per mantenere la stazione.
Un giorno un operaio con precedenti penali ha un incidente nella catena di montaggio e viene esposto ad una quantità mortale di radiazioni. Gli rimangono più o meno 5 giorni di vita e l’unica tecnologia in grado di curarlo si trova su Elysium. Per arrivarci senza autorizzazione e senza essere abbattuto prima dell’atterraggio occorrerà fare accordi con i criminali.
Quella della divisione netta tra una piccola fetta di popolazione ricca e dotata di qualsiasi privilegio, che mantiene uno stile di vita spensierato sfruttando il lavoro della massa di poveri, è una delle distopie cinematografiche più frequenti, una visione iperbolica del nostro presente proiettata in un futuro deteriore che ha contaminato tutto il cinema fin da Metropolis. E che proprio ad un regista come Neil Blomkamp sia stato affidato un film con una premessa così consueta è la pecca produttiva più grande del film. Nelle mani dell’autore di District 9 la storia è naturalmente sbilanciata verso il mondo dei poveri, ritratto con ammirabile dettaglio e mania per la creazione di meccanismi vessatori, scenari disperati e incubi operai, prelevati da un immaginario che poco ha a che vedere con la fantascienza ma pesca a piene mani dal cinema più realistico e sociale.
Purtroppo però Elysium nel portare avanti la sua storia di rivoluzione operaia e riconquista della giustizia a dispetto del progresso tecnologico non riesce a trovare il furore del film precedente, nè quell’equilibrio tra finzione e metafora del reale che avrebbe consentito di portare un passo più avanti l’usuale sottotesto sociale del cinema distopico. Solo le astronavi colme di disperati in cerca di salvezza che vengono abbattutte senza pietà prima di arrivare su Elysium, riescono ad essere un’immagine dotata della forza e dell’intelligenza che riconosciamo al regista sudafricano.
Semmai è più interessante la visione che Blomkamp ha della Los Angeles del 2154, totalmente bilingue (inglese-spagnolo), quasi uguale a quella contemporanea nelle tecnologie e nella moda (veicoli volanti a parte), colma di rifiuti come in Wall-E e non lontana per certi versi dalla fantascienza anni ’60, quella dei robot ubiqui che sembrano pupazzoni inerti da fiera di paese. Andando a girare il suo antifuturo nelle vere baraccopoli del Messico, Elysium svela la vicinanza con l’oggi e come la parte più cara all’autore non sia la lotta per la conquista del benessere che i ricchi tengono per sè (ben rappresentato dalla possibilità di guarire da ogni malattia) o lo scontro fisico con i luogotenenti di Elysium presenti sulla Terra (che appare molto forzato nella sua lunghezza) ma sia invece lo sforzo disperato costituito dal sopravvivere e crescere nei ghetti o nelle periferie del pianeta, evitando come possibile l’ubiqua criminalità e inseguendo la vaga speranza di un domani migliore. L’epica di un futuro in cui tutto è andato male che è visivamente identico all’oggi.

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KICK – ASS 2

Mentre Hit-Girl ha promesso al suo padrino di abbandonare il pericolo e l’avventura e si ritrova alle prese con un altro tipo di delinquenza, quella delle bullette adolescenti a scuola, Kick-Ass è felice di aver trovato una squadra di supereroi a cui unirsi, quella del Colonnello Stars and Stripes. Ma l’uccisione di suo padre da parte di David e Mindy ha acceso in Red Mist il fuoco della vendetta. Agghindato da Mother Fucker e circondato da un manipolo di mercenari senza pietà, comincia con l’assassinare il padre di David per poi dirigere il suo proposito verso Kick-Ass stesso.
In occasione del sequel, la parola, tanto in sede di sceneggiatura che di regia, passa dalle mani di Matthew Vaughn a quelle di Jeff Wadlow, ma la formula è pressoché immodificata e ripropone le medesime questioni.
Il concept prevede che, a far notizia e a fare il film, sia la sfacciataggine pop e patinata con cui si racconta di un nerd simpaticamente spiantato e di un’undicenne, oggi quattordicenne, dal viso ancora dolce e rotondo che, indossata la parrucca viola, si trasforma in una spietata seminatrice di morte. Eppure non è la violenza in sé a disturbare e non è nemmeno il fatto che sia deputata spesso e volentieri al personaggio di Chloe Moretz. Quello che rende spesso poco confortevole la visione del film di Wadlow è una messa in scena nella quale la spensieratezza dei colori saturi e dei movimenti di macchina estetizzanti deresponsabilizza una sequela di gesti truci mai veramente sublimati dall’iperrealismo, lontani da ogni leggerezza fumettistica (per non dire da qualsiasi eversività tarantiniana), ma soprattutto disancorata da qualsiasi abilità o pur minimo tentativo narrativo.
La violenza di Kick-Ass 2, cioè, è una violenza commerciale, pubblicitaria, studiata a tavolino per sdoganare i bassi istinti senza offrire alcuna catarsi, ma ciò che più stordisce è la noia di un racconto appiattito su un livello zero di ricerca creativa, che non calzerebbe su misura ad un episodio televisivo e viene qui propinato per il tempo di un lungometraggio.
Le cose non vanno meglio sul fronte puramente ideologico, con l’eliminazione letterale dei padri e la generazione dei figli impegnata a rispondere al male con il male o con una lassista alzata di spalle. Che infine si decida di sfrecciare via, verso il domani, o di rimanere senza maschera e abbracciare la stanca retorica dell’eroe nella vita di tutti i giorni, nessuna conclusione potrà mai riparare al danno di partenza, ovvero all’aver mancato di inseguire, nel farsi dell’impresa, un sufficiente (nemmeno “super”) motivo di interesse.

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