PROFESSIONALITA’ E FRUSTRAZIONE

ANCHE  SE LA VIDEOTECA STA’ CHIUDENDO LO STESSO ANDIAMO AVANTI PRENDENDO FILM NUOVE USCITE….. UN VERO PECCATO DOVER CHIUDERE UN VERO VERO PECCATO…..QUANDO UNA PASSIONE PER IL CINEMA COME LA MIA E’ TANTO FORTE…UN VERO PECCATO…..L’ITALIA STA ANDANDO IN PEZZI…..NIENTE PIU’ SOGNI SOLO INCUBI….

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HUNGER GAMES – LA RAGAZZA DI FUOCO

Ritrovati i loro cari e il loro distretto, Katniss e Peeta si preparano al tour e alla gloria che li attende a ogni stazione. Partita suo malgrado e sotto la minaccia del Presidente Snow, che la scopre innamorata di Gale, Katniss si accorge molto presto di aver acceso la speranza nel cuore della gente di Panem. Accolta come un’eroina piuttosto che una star, Katniss morde il freno ma il ricatto di Snow la costringe a giocare il suo ruolo e a distrarre il popolo dai problemi reali. Temeraria e sfrontata, Katniss cresce tuttavia in fascino e ascendente. Allarmato dal suo credito, Snow decide di diffamarlo, a ogni costo, con ogni mezzo. L’incarico viene affidato a Plutarch Heavensbee, stratega volontario che ha sostituito il ‘dimissionario’ Seneca Crane. L’idea è quella di indire un’edizione straordinaria dei giochi in cui concorreranno i vincitori delle edizioni precedenti. Katniss e Peeta, di nuovo uniti e di nuovo in gara, emergono su un’isola tropicale, circondata da un campo di forza e piena di insidie. Stabilite rapidamente alleanze e ostilità, i due ragazzi cercano di sopravvivere. Ma questa volta Katniss e Peeta non sono soli. La ghiandaia imitatrice ha spalancato le ali.
La trilogia di Suzanne Collins, che biasima la società dello spettacolo e sottrae ogni alibi e pretesa innocenza alla nostra identità di spettatori, è giunta sullo schermo al suo secondo atto, riprendendo il respiro là dove l’aveva trattenuto. Un anno e un’edizione dopo gli hunger games tornano nell’arena per smascherare il vuoto che ci resta al di là del pieno della televisione. Al centro brilla la loro stella più luminosa, archetipo eroico, quello della guerriera, ridotto a meccanismo ludico. Ritrovati Jennifer Lawrence e Josh Hutcherson, Francis Lawrence succede a Gary Ross, ribadendo con lo spettacolo la dimensione morale. Meno risolto e coerente del primo, Hunger Games: La ragazza di fuoco è nondimeno un efficace episodio di passaggio che si fa carico delle premesse del primo, sottintendendo la rivoluzione e preparando l’epilogo. Intrepida e rutilante, Jennifer Lawrence incarna ancora una volta il sacrificio e ancora una volta lo rimanda, permettendo a chi la osserva, al di qua e al di là dello schermo, di ragionare sullo spettacolo come linguaggio in grado di mettere in circolo il potere. Katniss, attrice condannata a essere solo un oggetto scopico passivo, rivendica adesso il diritto a ritornare soggetto dentro una sequenza di grande bellezza, in cui sfonda il confine del mondo (artificioso) e rivolge il proprio sguardo sulla rappresentazione che contribuisce a realizzare. Sorteggiata per innescare la paura e il consumo, l’eroina di Suzanne Collins ispira la rivoluzione e come il guerriero di De André tira una freccia al cielo per farlo respirare. Di là poi c’è il buio che chiude sui suoi occhi spalancati e promette un posto in cui (ri)nascono le immagini. Perché quello che può spezzare la catena è la capacità (e la volontà) di riconquistare la propria immagine. Per sé e per il popolo di Panem, che ha declinato lo speculare circenses, dove i suoi figli vengono mietuti e ‘tributati’ senza onore al pubblico di Capitol City. Blockbuster ‘di cuore’, pieno di trucchi e di sorprese, feste pirotecniche e meraviglie barocche, Hunger Games: La ragazza di fuoco è una fantasmagoria costruita sulla produzione di morte ‘vera’. Morte che ci attrae nella sua barbarie, che ci inchioda proprio come accade con il film di Francis Lawrence. Cinema della cattività, che aspira a realizzare una parabola fantascientifica sullo spettatore e sul bisogno di fruire sempre e solo di un’eccitazione continua. Il bello e il vero sono appannaggio di Katniss, che ha frecce al proprio arco per ridiventare soggetto di visione.

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BLUE JASMINE

C’era una volta Jasmine, reginetta mondana di Park Avenue, sposata al carismatico Hal, uomo d’affari che la viziava e lusingava. Ma Hal era anche un truffatore e un fedifrago e la fine del loro matrimonio ha portato Jasmine alla bancarotta e all’esaurimento nervoso. Sola e in balìa degli antidepressivi, la donna si trasferisce a San Francisco per vivere con la sorella Ginger, che spinge ad essere più ambiziosa in amore, scatenando la reazione del fidanzato di lei, Chili.
Rassicurati dall’esordio all’insegna dell’abituale jazz sull’abituale font dei titoli di testa, rigorosamente nell’abituale bianco su nero, ci prepariamo all’abituale “ronde” di incontri ed incroci e dissertazioni più o meno umoristiche sulla tragicommedia della vita, ma pian piano veniamo zittiti e sorpresi da un personaggio femminile gigantesco, che è insieme tutte le attrici di Woody Allen (Mia Farrow e Dianne Wiest in particolare, ma anche la Gena Rowlands di Un’altra donna) e una protagonista senza precedenti, per maturità di scrittura e resa interpretativa.
Jasmine arriva da New York a San Francisco in prima classe, senza smettere un secondo di raccontare i dettagli della sua storia alla vicina di posto, che si rivela essere una perfetta sconosciuta. Poi sarà la volta dello sproloquio riservato ai nipotini grassocci, altrettanto interdetti, e sempre di più del monologo, perché Jasmine non ha altro interlocutore possibile che se stessa: è un personaggio tragico, che non sa adattarsi al presente, legata ad un passato che non smette di riaffiorare e ad un immaginario (lo stesso per cui ha cambiato il suo nome da Jeanette in Jasmine) che si è costruita addosso come una seconda pelle.
Il fatto che la crisi della protagonista sia in relazione con la crisi della finanza e con l’ambiguità morale di una certa condotta di vita, non ci dice soltanto dello scarso ottimismo sociale del regista, che di per sé è cosa nota, ma ci racconta anche quanto lucido e attuale sia il suo sguardo sul mondo, quanto acutamente antropologico, anziché narcisista come viene spesso liquidato. Ci ricorda lo straordinario talento del comico newyorkese per la tragedia. Ci fa vivere ogni minuto l’effetto che fa uno scambio d’eccezione come quello tra il regista giusto e la giusta musa. Lui le consegna un copione perfetto, memore di Fitzgerald e Blanche DuBois (ottima anche Sally Hawkins nei panni di Stella/Ginger), e lei lo fa vivere con una forza e una vulnerabilità dirompenti. La regia di Allen, vibrante e sofisticata come non era da tempo, non nasconde la compassione, la Jasmine di Cate Blanchett, che sullo schermo parla da sola, instaura un dialogo speciale con la macchina da presa. Insieme, mantengono la leggerezza fino all’ultimo, mentre il dramma si va lentamente affacciando e imponendo.

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THOR – THE DARK WORLD

Con il fratello Loki imprigionato dopo i fattacci narrati in Avengers e i nove mondi pacificati, Thor nei grandi palazzi di Asgard ha tempo di perdersi appresso alla nostalgia amorosa che da due anni lo separa dall’umana conosciuta nel primo film. Nel frattempo lei, sulla Terra, studiando delle anomalie comparse a Londra viene risucchiata da un portale e contaminata dall’Aether, una forza da millenni nascosta al malvagio Malekith e la sua razza che, proprio per l’unione tra la terrestre e la sostanza, si risveglia.
Determinato a trovare l’Aether e con questo sfruttare l’allineamento dei nove mondi per instaurare un regno d’oscurità, Malekith marcia per annichilire innanzitutto Asgard e poi la Terra.
Con Thor: the dark world parte la “seconda stagione” dei Vendicatori, quella che passerà per il secondo film di Capitan America, I guardiani della galassia e altri fino a giungere a Avengers: Age of Ultron. La serializzazione del cinema di grande incasso compie un nuovo passo in avanti in questo senso e i Marvel Studios dimostrano di ragionare come la casa editrice di fumetti che sono, trattando ogni film come un albo, portando avanti una trama autoconclusiva assieme a una sottotrama più grande che confluirà nel film che riunisce tutti i personaggi, ovvero il “finale di stagione”.
Di certo dopo un primo fiacchissimo film incautamente affidato a Kenneth Branagh, Thor ha ora un trattamento a livello degli altri supereroi Marvel, con un film che non si perde nel cercare di elevare la materia che tratta ma che invece ne cavalca la sua componente più facile ed immediata per trovare l’intrattenimento e il divertimento più genuini. Merito di un team creativo che proviene dalla serialità televisiva e molto a suo agio con i personaggi Marvel.
È proprio questa resa al tono e al mood dei fumetti seriali americani di grande tiratura la caratteristica più evidente di questo nuovo film Marvel Studios. Se fino a ieri erano l’Hulk di Ang Lee o Scott Pilgrim vs. the world di Edgar Wright gli esempi più interessanti di fusione tra linguaggio del cinema e dei fumetti, adesso il cinema Marvel sta cercando un altro percorso per questa fusione e non intende farlo passando per montaggio o replica del sistema “a tavole” ma passando per la leggerezza e frivolezza con cui si raccontano apocalissi indicibili e per il rapporto che la storia instaura con lo spettatore. Non è difficile infatti intravedere in Thor: the dark world le fantasie di onnipotenza (vivere la vita reale e risolvere problemi reali con poteri immaginari) che si trovano anche in Spider-Man o negli X-Men (fumetti e film) e che mancavano al film precedente, il segno più evidente di un rinnovato approccio più in linea con il target d’elezione.

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COSE NOSTRE – MALAVITA

Decisosi a parlare e mandare in galera tutta la sua famiglia (o almeno quelli che ha lasciato in vita) assieme al proprio clan, il boss mafioso Giovanni Manzoni è continuamente trasferito da una casa all’altra e da un’identità fittizia all’altra per il programma protezione testimoni dell’FBI. Arrivato con la moglie, la figlia adolescente e il figlio di poco più piccolo in un paesino della Francia, tenterà di sopprimere la sua natura mentre i suoi parenti si integrano a modo proprio con l’ambiente locale.
Intanto in una galera americana, uno dei molti capi che ha fatto incarcerare con la sua testimonianza non smette di cercarlo per chiudere i conti.
C’è il tocco di Martin Scorsese su Cose nostre – Malavita, film di cui è produttore esecutivo e che infatti non ha i soliti toni eccessivi di Luc Besson ma un’inedita (per il regista francese) vicinanza ai temi narrati. Il quadro della famiglia di Cose nostre è infatti un film di mafia post-Soprano, in cui i malavitosi sono persone insospettabilmente normali ma capaci di perpetrare azioni truci nella stessa maniera in cui si va al lavoro ogni giorno. Ma diversamente dal solito il ritratto è contaminato da un affetto, una nostalgia e al tempo stesso un autentico terrore del crimine italoamericano che paiono venire dall’immaginario scorsesiano.
Il calco ufficiale è il romanzo “Malavita” di Tonino Benacquista, quello non ufficiale sembra invece l’unione di In Bruges e Quei bravi ragazzi (che in un momento di metacinema sfiorato viene proiettato davanti al protagonista interpretato da Robert De Niro). È impossibile infatti non notare un certo piacere filmico nel manipolare la trama e i personaggi che compongono la famiglia del film in modo che oscillino in continuazione tra dramma e commedia, tra risata e tensione, facendosi forza di un’ambientazione inusuale (il paesino della Francia del nord) utilizzata con una chiave satirica che ricorda il film di McDonagh. Al tempo stesso è anche evidente come uno dei punti chiave della trama sia la discesa del boss, il suo essere ridotto al rango di persona normale, privato dei privilegi, del rispetto e della deferenza che sono dovuti ad un criminale del suo rango e costretto a subire i consueti soprusi di tutti i giorni invece che imporli agli altri, come accade all’Henry Hill di Ray Liotta.
Non c’è quindi molto di originale nel film di Besson, che da sempre è più un abile masticatore di cinema altrui che un creatore originale, tuttavia questa volta il miscuglio è più bilanciato e armonioso del solito. Superando la chimera dell’originalità a tutti i costi, Besson riesce a saltare dall’high school movie alle sparatorie in mezzo alle strade, dai dialoghi screwball dei due coniugi a quelli noir tra De Niro e Tommy Lee Jones, con un’agilità che non fa sentire nessuna fatica al pubblico, anzi esalta le qualità del film.

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IL QUINTO POTERE

Nel 2007 Julian Assange, già gestore e fondatore di WikiLeaks, incontra Daniel Domscheit-Berg, con lui nel corso di 3 anni porterà la piattaforma per la divulgazione di documenti riservati alla notorietà mondiale attraverso la pubblicazione di una serie segreti clamorosi, culminati con i cablogrammi e i resoconti riguardanti la guerra in Afghanistan del governo americano nel 2010, evento talmente clamoroso da distruggere la stessa organizzazione interna del sito e renderlo il nemico dei principali governi del pianeta.
Quella di WikiLeaks è una storia a doppio livello. Da una parte è un racconto dell’era digitale, la nascita di un sito (e di una tecnologia dietro di esso) che ha cambiato il concetto di segretezza, consentendo la più grande fuga di notizie nella storia dell’informazione; dall’altra è uno dei molti esempi delle nuove forme di attivismo, cioè di come la tecnologia e la comunicazione digitale stiano cambiando la maniera in cui gli individui agiscono e si muovono per protestare attivamente contro le istituzioni.
In questo senso il film di Bill Condon (scritto da Josh Singer, ex collaboratore di Aaron Sorkin) guarda sia alla nuova scia di film che cercano di portare al cinema la più grande rivoluzione dei tempi che viviamo attraverso gli uomini dietro gli indirizzi internet più noti (da The social network fino ai prossimi biografici su Steve Jobs), sia ai movimenti politici e alle tendenze sociali maggiori, come già cercavano di fare i documentari TPB: AFK e We are legion. Forse però non è Bill Condon la personalità più adatta per un simile impiego.
Della complessa figura di Julian Assange il regista azzecca ma non calca il contrasto tra tensione verso la verità e continuo ricorso alla menzogna, la costruzione di un personaggio per molti tratti fasullo e l’irrefrenabile tendenza alla mistificazione finalizzata ai propri nobili scopi, che poi concidono sempre con quelli della sua creatura.
Tuttavia, dotato di un immaginario saldamente radicato nei decenni passati e poco incline a ripensare il cinema per adattarsi alla messa in scena di qualcosa che non c’è (un sito internet), Il quinto potere non ambisce al rigore di The social network (che di un network sociale come Facebook mostrava il contesto di nascita, nuove imprese da nuove categorie umane) ma anzi, pur puntando anch’esso sul rapporto fedeltà/tradimento di due amici, ha la sua trovata visiva più audace in un’idea vecchio stampo per la quale WikiLeaks viene rappresentato da un ufficio anni ’50, in cui i file arrivano sotto forma di fogli di carta che bruciano quando viene attaccato. È solo un esempio dell’incapacità del film di immaginare un cinema diverso per raccontare dinamiche, personaggi e fatti unici, che si rispecchia anche nella necessaria semplificazione che viene fatta del protagonista. Il quinto potere infatti in molti punti dipinge Julian Assange con i toni del villain classico (quasi da Ian Fleming, dall’apparenza anticonvenzionale che si rispecchia in gusti, valori e tendenze non ortodosse), non solo lo mette esplicitamente dalla parte del male facendolo scivolare lentamente nel delirio (del resto il film è tratto dal resoconto molto parziale contenuto nel libro scritto dall’ex socio di Assange, ora in causa con lui) ma racconta il legame con Daniel Domscheit-Berg attingendo dichiaratamente al repertorio del melodramma e andando ben oltre l’innocuo bromance. L’Assange di Condon si comporta come una fidanzata ferita che per affermare la propria indipendenza compie il più clamoroso degli atti (di nuovo come Zuckerberg all’inizio di The social network, solo che in quel caso si trattava di un fatto ammesso dallo stesso protagonista) e questo senza negarsi nessuno dei peggiori stereotipi legati al mondo dell’hacking, dalla solitudine all’inettitudine sociale fino al rancore.
Diviso tra l’ammirazione per le conquiste di WikiLeaks e la condanna dei rischi che ha corso, Il quinto potere appare più preoccupato di tirare una morale alla fine della storia (rigorosamente in bocca a giornalisti della carta stampata) che di mostrare la maniera in cui le nuove tecnologie stiano lasciando emergere nuovi protagonisti, nuovi contrasti e nuovi problemi ai vertici socio-economici della società. Il film tralascia totalmente la ricerca di un registro differente dal solito, riducendo una storia complessa da spiegare proprio per la peculiarietà dei suoi contrasti, ad un melò vecchio stampo in cui le dialettiche sono sempre gelosie, invidie e vanità già note e prevedibili dallo spettatore.

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RUNNER RUNNER

Avendo perso tutto nel crollo del mercato di Wall Street Richie Furst ha ricominciato daccapo, studiando freneticamente per ottenere una specializzazione e mettendo in piedi un circuito di gioco d’azzardo on line tra gli studenti. Convinto di  essere stato raggirato da un sito di scommesse ed avendo visto andare in fumo tutto il denaro destinato ai suoi studi, parte per il Costa Rica per affrontare colui che sta dietro al lucroso business del gioco online: Ivan Block. Block è colpito dalla destrezza di Richie e decide di prenderlo sotto la sua ala protettiva, con la promessa di insegnargli i trucchi del mestiere. Richie ha ora la possibilità di accedere ad un mondo in cui i suoi sogni diventano realtà, e si invaghisce della bella Rebecca Shafran la sofisticata socia  di Block. Ma Block non è solo un brillante uomo d’affari.
Dopo lo straordinario successo di Argo c’è da chiedersi cosa abbia indotto Ben Affleck ad accettare il ruolo di Ivan Block in questo film. Perché se si cerca una storia di cui si possono anticipare quasi tutti gli sviluppi narrativi la si può trovare nello script di Runner Runner in cui il personaggio affidato ad Affleck risulta piattamente servito da scarsi approfondimenti psicologici che affondano in stagni di corruzione latinoamericana che una serie (per di più remake) come The Bridge sa descrivere con maggiore pathos.
L’unico elemento di interesse è la descrizione (talvolta con toni decisamente troppo tecnici) della complessa macchina del gioco d’azzardo informatizzato capace di mandare sul lastrico nel mondo migliaia di persone alle quali non si chiede neppure di muoversi dal salotto di casa. Tutto il resto è routine.

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AVVISO A TUTTI I CLIENTI!!!!

PURTROPPO LA VIDEOTECA CESSERA’  LA PROPRIA ATTIVITA’ IL  31 MARZO

COME DISPOSTO DALLA LEGGE AVVERTIAMO UN MESE PRIMA PER PERMETTERE ALLA CLIENTELA DI SPENDERE NOLEGGIANDO I SOLDI RIMASTI NELLE TESSERE.

SONO MOLTO TRISTE COME TITOLARE VISTO CHE VEDO IL MIO SOGNO, E CIOE’ POTER GESTIRE UNA VIDEOTECA ESSENDO SEMPRE STATO APPASSIONATO DI CINEMA, SVANIRE PER I TANTI COSTI ORMAI NON PIU’ SOSTENIBILI E PER UNO STATO CHE NON HA FATTO ALTRO CHE RUBARE AI POVERI CITTADINI. SON DELUSO ED AMAREGGIATO CHE FINISCA COSI!

COMUNQUE MARZO LA VIDEOTECA PROCEDERA’ COME SEMPRE A PRENDERE LE USCITE PIU’ BELLE COMPRESO THOR, BLUE JASMINE, HUNGER GAMES, IL QUINTO POTERE, COSE NOSTRE. VISTA LA NOSTRA PROFESSIONALITA’ GARANTIREMO FINO ALL’ULTIMO GIORNO LA FUNZIONALITA’ QUOTIDIANA DELLA VIDEOTECA!!!!

UN SALUTO AFFETTUOSO A CHI CI HA SEGUITO PER QUESTI ANNI!!

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CAPTAIN PHILLIPS – ATTACCO IN MARE APERTO

Nel 2009 il capitano Richard Phillips lascia la sua famiglia nel Vermont per guidare la nave porta container USA Maersk Alabama dall’altra parte del mondo. In acque extraterritoriali, il suo bastimento viene però attaccato da un manipolo di pirati somali, armati e pronti a tutto, e Phillips viene rapito, in cerca di riscatto.
Serve a poco che i pescatori somali chiamino il personaggio di Tom Hanks “Irish” anziché yankee: il film si nasconderebbe dietro un dito se non desse per evidente e garantito che quello che racconta è un attacco alla ricchezza battente bandiera americana da parte di un gruppo di poverissimi, ricattati da un locale signore della guerra e dunque in qualche modo “obbligati” a recitare la parte dei cattivi e a posizionare Hanks e i suoi in quella degli eroi. Ma non è questo il punto, o meglio è solo il punto di partenza.
Greengrass si trasferisce dal ventre dell’aereo United 93 a quello di una nave che porta soccorsi umanitari, ma la sostanza non cambia, e non solo perché si tratta della ricostruzione di una storia vera, ma soprattutto perché, se là era la fine ad essere nota, qui lo è in qualche modo la premessa. Il governo americano non abbandona i suoi cittadini (è una morale che torna sempre più spesso nei film hollywoodiani degli ultimi anni), foss’anche uno solo, e non importa quali e quanti costi umani e militari questo comporti. La cavalleria arriverà e quella somala potrebbe allora tradursi in un’altra missione suicida, ma -ancora una volta- l’abilità cinematografica di Greengrass sta tutta nel saper creare, tra due estremi noti, una tensione che non lascia scampo.
La scrittura non è mai stato il punto di forza dei film da lui diretti,  e i dialoghi di  Captain Phillips non si segnalano per particolare smalto, ma questa volta la dinamica narrativa è più semplice e al contempo più sofisticata.  Dalla condizione di assedio, che vede tutti contro tutti, il film vira ad un certo punto verso un contesto più asfittico e cardiopatico: l’Iliade si trasforma così in Odissea e Philipps si ritrova a vivere una serie di peripezie in solitaria. Per tornare a casa, dovrà ricorrere alle sue doti umane (il rapporto tra i due capitani è lo spazio emotivo del film), all’astuzia e alla fede in un’entità superiore (i Seals).
L’ambientazione in alto mare, il ritratto lucido della Marina statunitense nei suoi vari gradi, l’impatto visivo e metaforico della piccola scialuppa circondata dalle enormi navi da guerra sono parte integrante dello spettacolo inscenato da Greengrass. Completa il quadro la performance di Tom Hanks e il cast di non professionisti che dà sguardo e sangue ai pirati somali. Non si cerchino, però, grandi spunti etico-politici: that’s entertainment.

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ESCAPE PLAN – FUGA DALL’INFERNO

Ray Breslin è un esperto mondiale di sicurezza delle strutture carcerarie, tanto che ha passato metà della propria vita ad evadere dalle prigioni nelle quali era entrato sotto copertura, per provarne le falle. Proprio quando sta pensando di ritirarsi, un’offerta senza precedenti lo spinge ad accettare un ultimo incarico: testare il penitenziario segreto di massima sicurezza detto “la Tomba”. Ingannato e incastrato, Breslin sembra condannato a restare sepolto vivo, ma la complicità con il detenuto Rottmayer lo motiva a non desistere.
C’è qualcosa di romantico, che eleva e sabota allo stesso tempo Escape Plan. La vecchia coppia Stallone-Schwarzenegger, che ha passato anni a gareggiare sul centimetro in più di rigonfiamento del supinatore e si trova oggi a fare colazione insieme in prigione, costruendo bussole di carta sotto il banco e inscenando una scazzottata per amore dei fan, ispira una tenerezza che finisce per smorzare l’impatto di un contesto effettivamente da incubo, in cui i diritti umani non esistono, le guardie non hanno volto, la sentenza non ha appello possibile e la natura privata e segreta di questo brevetto di morte ne assicura l’invisibilità assoluta.
Allo stesso tempo, però, quest’aura da vecchi tempi (e modi del cinema), fatta di stratagemmi alla Lupin e prove fisiche da supereroi senz’armatura, dà sapore ed entusiasmo ad uno script ben poco verosimile, nel quale l’evasione del prologo -che serve unicamente a presentare il personaggio di Sly- è quasi più complessa e incredibile di quella al centro del racconto.
E non sono nemmeno i colpi di scena (o supposti tali) a tenerci attaccati allo schermo, ma piuttosto quel carattere di umanesimo, più ingenuo che retorico, che Stallone infonde da sempre alle operazioni cui partecipa e che ben si abbina al tocco più leggero del suo partner. Non è il regista, dunque, a fare la differenza, non il copione né l’ambientazione suggestiva (ricreata all’interno di una mega struttura della NASA a New Orleans): ancora una volta, come nei “Mercenari”, è una questione di spirito. Stallone e Schwarzy incarnano letteralmente, nei loro corpi forti ma provati, lo spirito di chi non si arrende, offrendo allo script un senso che nessun’altra star, più giovane e prestante, avrebbe potuto offrire. Di più non si può chiedere; non si va oltre l’intrattenimento in tempo reale, ma la nota romantica ne fa un film paradossalmente più duro di quanto avrebbe fatto la sola nota fisica.

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