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BLUE JASMINE

C’era una volta Jasmine, reginetta mondana di Park Avenue, sposata al carismatico Hal, uomo d’affari che la viziava e lusingava. Ma Hal era anche un truffatore e un fedifrago e la fine del loro matrimonio ha portato Jasmine alla bancarotta e all’esaurimento nervoso. Sola e in balìa degli antidepressivi, la donna si trasferisce a San Francisco per vivere con la sorella Ginger, che spinge ad essere più ambiziosa in amore, scatenando la reazione del fidanzato di lei, Chili.
Rassicurati dall’esordio all’insegna dell’abituale jazz sull’abituale font dei titoli di testa, rigorosamente nell’abituale bianco su nero, ci prepariamo all’abituale “ronde” di incontri ed incroci e dissertazioni più o meno umoristiche sulla tragicommedia della vita, ma pian piano veniamo zittiti e sorpresi da un personaggio femminile gigantesco, che è insieme tutte le attrici di Woody Allen (Mia Farrow e Dianne Wiest in particolare, ma anche la Gena Rowlands di Un’altra donna) e una protagonista senza precedenti, per maturità di scrittura e resa interpretativa.
Jasmine arriva da New York a San Francisco in prima classe, senza smettere un secondo di raccontare i dettagli della sua storia alla vicina di posto, che si rivela essere una perfetta sconosciuta. Poi sarà la volta dello sproloquio riservato ai nipotini grassocci, altrettanto interdetti, e sempre di più del monologo, perché Jasmine non ha altro interlocutore possibile che se stessa: è un personaggio tragico, che non sa adattarsi al presente, legata ad un passato che non smette di riaffiorare e ad un immaginario (lo stesso per cui ha cambiato il suo nome da Jeanette in Jasmine) che si è costruita addosso come una seconda pelle.
Il fatto che la crisi della protagonista sia in relazione con la crisi della finanza e con l’ambiguità morale di una certa condotta di vita, non ci dice soltanto dello scarso ottimismo sociale del regista, che di per sé è cosa nota, ma ci racconta anche quanto lucido e attuale sia il suo sguardo sul mondo, quanto acutamente antropologico, anziché narcisista come viene spesso liquidato. Ci ricorda lo straordinario talento del comico newyorkese per la tragedia. Ci fa vivere ogni minuto l’effetto che fa uno scambio d’eccezione come quello tra il regista giusto e la giusta musa. Lui le consegna un copione perfetto, memore di Fitzgerald e Blanche DuBois (ottima anche Sally Hawkins nei panni di Stella/Ginger), e lei lo fa vivere con una forza e una vulnerabilità dirompenti. La regia di Allen, vibrante e sofisticata come non era da tempo, non nasconde la compassione, la Jasmine di Cate Blanchett, che sullo schermo parla da sola, instaura un dialogo speciale con la macchina da presa. Insieme, mantengono la leggerezza fino all’ultimo, mentre il dramma si va lentamente affacciando e imponendo.

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COSE NOSTRE – MALAVITA

Decisosi a parlare e mandare in galera tutta la sua famiglia (o almeno quelli che ha lasciato in vita) assieme al proprio clan, il boss mafioso Giovanni Manzoni è continuamente trasferito da una casa all’altra e da un’identità fittizia all’altra per il programma protezione testimoni dell’FBI. Arrivato con la moglie, la figlia adolescente e il figlio di poco più piccolo in un paesino della Francia, tenterà di sopprimere la sua natura mentre i suoi parenti si integrano a modo proprio con l’ambiente locale.
Intanto in una galera americana, uno dei molti capi che ha fatto incarcerare con la sua testimonianza non smette di cercarlo per chiudere i conti.
C’è il tocco di Martin Scorsese su Cose nostre – Malavita, film di cui è produttore esecutivo e che infatti non ha i soliti toni eccessivi di Luc Besson ma un’inedita (per il regista francese) vicinanza ai temi narrati. Il quadro della famiglia di Cose nostre è infatti un film di mafia post-Soprano, in cui i malavitosi sono persone insospettabilmente normali ma capaci di perpetrare azioni truci nella stessa maniera in cui si va al lavoro ogni giorno. Ma diversamente dal solito il ritratto è contaminato da un affetto, una nostalgia e al tempo stesso un autentico terrore del crimine italoamericano che paiono venire dall’immaginario scorsesiano.
Il calco ufficiale è il romanzo “Malavita” di Tonino Benacquista, quello non ufficiale sembra invece l’unione di In Bruges e Quei bravi ragazzi (che in un momento di metacinema sfiorato viene proiettato davanti al protagonista interpretato da Robert De Niro). È impossibile infatti non notare un certo piacere filmico nel manipolare la trama e i personaggi che compongono la famiglia del film in modo che oscillino in continuazione tra dramma e commedia, tra risata e tensione, facendosi forza di un’ambientazione inusuale (il paesino della Francia del nord) utilizzata con una chiave satirica che ricorda il film di McDonagh. Al tempo stesso è anche evidente come uno dei punti chiave della trama sia la discesa del boss, il suo essere ridotto al rango di persona normale, privato dei privilegi, del rispetto e della deferenza che sono dovuti ad un criminale del suo rango e costretto a subire i consueti soprusi di tutti i giorni invece che imporli agli altri, come accade all’Henry Hill di Ray Liotta.
Non c’è quindi molto di originale nel film di Besson, che da sempre è più un abile masticatore di cinema altrui che un creatore originale, tuttavia questa volta il miscuglio è più bilanciato e armonioso del solito. Superando la chimera dell’originalità a tutti i costi, Besson riesce a saltare dall’high school movie alle sparatorie in mezzo alle strade, dai dialoghi screwball dei due coniugi a quelli noir tra De Niro e Tommy Lee Jones, con un’agilità che non fa sentire nessuna fatica al pubblico, anzi esalta le qualità del film.

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UNA PICCOLA IMPRESA MERIDIONALE

Don Costantino è stato un prete e ora non lo è più. Si è innamorato, si è spretato e poi è stato mollato. Con le pive nel sacco se ne torna al paese natale, giù a Sud. Reo confesso, trova nella madre un faro! Non una persona saggia che lo guida nella buia notte in cui si è cacciato, ma un faro vero e proprio, esilio coatto per evitare un altro scandalo famigliare dopo quello procurato dalla sorella, scappata con un amante. Il prete nel faro cerca di raccogliere i pezzi, quelli metaforici della sua anima e quelli reali che cadono dal soffitto della proprietà di famiglia da tempo abbandonata. Pensandosi solo in quei domiciliari, scopre di attrarre altri “volontari”, come il cognato cornuto con velleità di pianista raffinato, la sorella slovacca della giovane domestica della madre (una ex prostituta), la ditta di ristrutturazione chiamata a saldare il tetto (una ex compagnia di circensi), come la sorella rediviva. Un’accolita improbabile di “ex”, personaggi in cerca di nuova collocazione ai quali si aggiungeranno pian piano altri come fossero gli elementi di un banda musicale in formazione, un po’ scombiccherata, ma animata da passione ed entusiasmo.
La musica è sempre stata importante per Rocco Papaleo, forse la cosa più importante. Il “gesto musicale” lo ha sempre accompagnato nelle diverse espressioni della sua arte e mestiere, quando comico e cabarettista, quando attore e caratterista per il cinema e il teatro, quando musicista del suo “teatro canzone” e infine quando regista. Il suo stesso raccontare è musicale.
Questa dimensione lavora a diversi livelli anche nel suo secondo film, talvolta in maniera esplicita, tal altra in maniera profonda. Sin dalla prima inquadratura si è immersi nel mood di una narrazione musicale, come fossimo alla presenza di un “cinema canzone”, laddove il personaggio, una sorta di crooner disincantato, canta il suo destino e la sua maledizione, non senza ironia e leggerezza. La “voce-off” di Don Costantino ci porta nei suoi mari remoti, come fosse un cunta storie tra oralità e messa in scena.
Bene, è con questa guida musicale che Papaleo, insieme allo sceneggiatore Valter Lupo, ha scritto e poi interpretato Una piccola impresa meridionale, componendo il quadro con variazioni progressive di temi aggiuntivi, personaggi che si uniscono all’impresa, ognuno con una sua voce e melodia. È così che in maniera più sotterranea gli elementi vanno a congiungersi in un Bolero sudista un po’ squinternato che trova e perde i pezzi ad ogni voltar di pagina.
Rispetto a Basilicata coast to coast, film erratico e scomposto, road movie musicale ed esistenziale, canzone scanzonata orecchiabile ma non ripetitiva, Una piccola impresa meridionale ha un’intenzionalità più dichiarata, una partitura dalla scrittura più evidente, anche se tradita da cedimenti improvvisi di fughe e assoli. Immobile il film ondeggia, come lo sfondo marino dietro il suo faro statuario. Mobile è l’intenzione narrativa, rigida è la sua messa in scena. Statica è l’ambientazione (tutto si svolge dentro e fuori dal faro), dinamica è l’entrata dei personaggi che si agitano intorno a quel simbolo dell’isolamento e della solitudine come per esorcizzarne il mandato. Papaleo è un cantastorie ondivago, ti prende per mano e poi ti lascia, ti guida e poi ti abbandona, suona una partitura e poi si perde nella sua variazione, e questo movimento alterno un po’ ci piace e un po’ ci delude.

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SOLE A CATINELLE

Checco Zalone è sui trenta in quel del vicentino, con moglie e figlio decenne. Sorride sempre, con la smorfia inebetita di chi ha vissuto nel sogno televisivo dell’ultimo ventennio. Di lavoro aspira la polvere, dapprima negli hotel di lusso, dove ha cresciuto la sua mira di ricchezza, poi nelle case delle sue tante zie meridionali, intento a vendere l’elettrodomestico che lo riscatterà economicamente. Ci riuscirà perché è simpatico e ottimista (ma non comunista, anzi qualunquista). Compra tutto quello che serve, ma subito dopo lo perde perché fidi e assegni postdatati si sciolgono come la neve sotto il “sole a catinelle”, mentre la moglie operaia vicentina perde il lavoro nel nord-est non più ricco, facendosi paladina di una lotta di classe datata come le trasmissioni giornalistiche di sinistra che la vogliono raccontare. Tornato povero, non è meno ottimista e promette al figlio una vacanza da sogno se prende tutti, ma proprio tutti i dieci nell’ultima pagella. Li prende e Checco il burlone, un po’ Sordi un po’ Zalone, si mette in viaggio pensando di aggirare l’intelligenza del figlio con qualche sorniona battuta ad effetto. La vacanza da sogno arriva in Molise da una zia tirchia, laddove l’aspirante agente ha pensato di raschiare il fondo dell’ultimo rampo parentale, ma sono quasi tutti morti. Il figlio decenne non ci sta a passare le vacanze promesse d’oro in un paese di moribondi e s’incazza, letteralmente. Il padre ripiega verso nord in una sorta di involontario remake barese di In viaggio con papà, senza più Sordi e Verdone, senza più la Sardegna dei pre-Berlusconi, ma con lo sfondo di un’Italia ugualmente cafona nel cuore di una Toscana miliardaria tra chic di sinistra e imprenditori a Portofino. In questo viaggio incontreranno una varia umanità di cialtroni, truffatori, venduti, corrotti, assistiti, megalomani…
Nel suo irradiarsi sornione tra le cose dell’Italia di oggi, Checco Zalone si fa paladino di una parodia esilarante, pupo e puparo allo stesso tempo, attore e autore di gesta tanto involontarie quanto leggendarie. Parla e agisce per antifrasi (perdoni Zalone la parolaccia) e con la forza di questo antico motore dell’ironia toglie la maschera a tutte le figure della sua parata goldoniana, neanche più grottesche ma quasi semplicemente realistiche, forse anche immalinconite per quanto sono ripetitive e note, eppur resistenti.
Il viaggio con papà è solo un pretesto, una rete dentro la quale il comico fa cadere le sue vittime, infinita la schiera: maestre, psicologi, imprenditori, operai, omosessuali, comunisti, logopedisti, massoni, naturalisti, giornalisti, finanzieri, neri, cinesi, artisti, registi, maestri yoga… davvero tanti, quasi tutti, tranne i politici. La loro assenza è rumorosa e molesta (ma forse comprensibile) in questa ronde comunque agghiacciante. D’altronde questi italiani “a catinelle” non sembrerebbero molto diversi dalla classe dirigente che li governa, almeno questo sembrerebbe dire l’autore, ma molto tra le righe, visto che il suo agnosticismo dichiarato lo porterebbe a negare qualsiasi interpretazione. Zalone d’altronde non si mette certo sopra il suo mondo cafone, è primus inter pares, “disgraziato e stronzo” come gli altri, ma certo simpatico e travolgente (come lo era Sordi, senza essere Sordi).
Non mancano le famose canzoni, quelle neomelodiche e parodistiche che hanno reso famoso il comico di Zelig, che a tratti trasformano il film in un musicarello, ma senza pretese, anzi con un altissimo grado di auto-ironia. Dei tre film di Zalone questo è il più ambizioso e riuscito.

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L’ASPIRANTE VEDOVO

Alberto Nardi è un cialtrone velleitario che ha sposato la ricchissima Susanna Almiraghi e ora vive nella sua ombra, cercando di convincerla a finanziare progetti in perdita e imprese fallimentari. Susanna considera il marito “uno gnu gnu” e non perde occasione per umiliarlo e ricordargli la sua condizione di inferiorità. Quando la moglie viene indicata come vittima di un incidente aereo, Alberto intravede la sua occasione di riscatto. Ma come sempre niente va come lui vorrebbe, e il destino, di cui lui stesso è fabbro, continua a ritorcerglisi contro.
Il soggetto di Aspirante vedovo è “liberamente tratto” dal film Il vedovo di Dino Risi, i cui sceneggiatori erano Rodolfo Sonego, Fabio Carpi, Sandro Continenza, Dino Verde e lo stesso Risi. Gli sceneggiatori di questo “omaggio” sono invece Ugo Chiti, Michele Pellegrini, Piero Guerrera e il regista Massimo Venier. E ad Alberto Sordi e Franca Valeri subentrano, nei ruoli di Alberto e della moglie (che nell’originale si chiamava Elvira), Fabio De Luigi e Luciana Littizzetto. Non può che sorgere spontanea una domanda: perché rimettere mano a un capolavoro del cinema italiano e a una sceneggiatura che funzionava come un congegno ad orologeria? Perché rischiare il confronto con due mostri sacri della recitazione riassegnando i ruoli per cui Sordi e la Valeri erano nati?  Una risposta avrebbe potuto essere: per aggiornare al presente certi vizi italici e gettare una luce tragicomica sulla nostra nazione oggi, come Risi aveva fatto con l’Italia di fine anni ’50. Ma Aspirante vedovo perde l’occasione di raccontare Alberto come un prodotto del nostro tempo e di descrivere il presente della crisi come ben più degradato dell’Italietta del boom. Gli accenni ai poteri forti che circondano Alberto – la magistratura, le banche, la Chiesa, l’Europa unita – o alle morti bianche e ai giocattoli tossici peccano di qualunquismo e si mantengono lontani dalla satira politica, limitandosi a buttare là allusioni a un personaggio “talmente stronzo che può diventare premier” e ad un altro che “con quel che deve all’erario, di ponti sullo stretto ne faceva due”.
Tanto Il vedovo era preciso nel tratteggiare i suoi personaggi, piccoli e grandi, come cartine di tornasole di fenomeni sociali assai riconoscibili, tanto Aspirante vedovo si mantiene in superficie, senza mai affondare il colpo. E se davanti a Il vedovo ancora oggi si ride forte, pur sentendocisi accapponare la pelle, davanti ad Aspirante vedovo a malapena si sorride, con un leggero senso di disagio. Laddove la sceneggiatura del film di Risi tesseva decine di fili, andando a chiudere ogni parentesi aperta, quella del film di Venier abbandona discorsi a metà e tralascia indizi inutilmente seminati. Sparisce il delizioso rapporto fra Susanna e l’amante di Alberto, sparisce la macchinazione del “colpo” che era un prodigio di regia e scrittura, e il finale diventa un pasticcio inspiegabile, mentre ne Il vedovo era la chiusa perfetta (e naturale) della storia. Mancano il ritmo di montaggio, le invenzioni di regia, i tempi comici impeccabili e l’amarezza di fondo che facevano del film di Risi una commedia molto italiana, con eleganti accenni al noir internazionale.
Il personaggio di Susanna, nella nuova versione, è quello che subisce la trasformazione più radicale (se questo è un segno dei tempi, poveri noi): da donna intelligente e non priva di un suo lato tenero, diventa un’arpia cinica e calcolatrice che si augura la morte del marito (e chi ha visto l’originale sa quanto questo mini alle fondamenta l’impianto della storia). Se Luciana Littizetto potrebbe essere una continuazione contemporanea (in tono minore) di Franca Valeri, Fabio De Luigi è decisamente fuori ruolo nei panni di Nardi, soprattutto se paragonato a quell’Alberto Sordi sul cui viso si leggevano tutti i pensieri inespressi e le intime perversioni.

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CANI SCIOLTI

Bobby Trench e Marcus Stigman  fanno parte da un anno di una banda di narcotrafficanti con base in Messico. Bobby vi è stato infiltrato dalla DEA (la Squadra antinarcotici) mentre Marcus fa parte dell’Intelligence della Marina degli Stati Uniti. Nessuno dei due sa però quale sia il vero ruolo dell’altro. Il tentativo, messo in atto in coppia, di svaligiare una banca che conserva un ingente capitale proveniente dal narcotraffico, ha esiti imprevisti. Da quel momento i due non hanno più il sostegno dei loro superiori che anzi cercano di arrestarli. Ma non sono i soli sulle loro tracce.
Baltasar Kormàkur ha lasciato da qualche tempo le apparentemente tranquille lande islandesi e con questo film entra in contatto diretto con lo star system hollywoodiano avendo a disposizione Denzel Washington e Mark Wahlberg nonché Paula Patton in pari misura affascinante ed efficace. Il plot di base sembrerebbe metterci di fronte all’ennesima coppia buddy/buddy costretta ad unire le proprie divergenti forze al fine di lottare contro nemici previsti e imprevisti. Sin dall’inizio la  regia, con quel treno che taglia la strada all’auto obbligandola ad attendere, sembra però volerci dare un avvertimento: sarà un film made in Usa ma con un pizzico di erbe aromatiche islandesi. Kormàkur interviene sulla sceneggiatura consentendo a Washington e Wahlberg anche di improvvisare ma mantenendo un livello di confronto che si trasforma in giudizio su quell’universo complesso che sono, sul piano economico e sociale, gli Stati Uniti. Se la lezione di Tarantino non tarda a farsi sentire (con i metodi ‘sbrigativi’ di uno degli inseguitori) il gioco di coppia iniziale è tutto teso a sottolineare le differenze tra i due senza mai dimenticare la giusta dose di ironia. Progressivamente però prende piede una riflessione sulla corruzione e sui giochi di potere che coinvolgono istituzioni la cui facciata pretende di conservarsi inattaccabile. Tutto questo però senza mai dimenticare le regole di base del genere che vogliono che l’azione  e il ritmo ad essa collegato non vengano mai meno. Qui tra sparatorie, inseguimenti in auto e confronti/scontri, azione e ritmo non mancano.

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UNIVERSITARI – MOLTO PIU’ CHE AMICI

Il romano Carlo, il palermitano Alessandro e l’iraniano Faraz sono studenti universitari che vivono insieme in un’ex clinica fatiscente e si ritrovano a condividere gli alloggi con tre studentesse: Giorgia, Francesca ed Emma. La convivenza si rivelerà burrascosa ma anche foriera di inattesi legami. Intorno ai sei ragazzi si muovono infatti docenti scorretti, amanti quarantenni, genitori esigenti o eternamente litigiosi, un microcosmo di adulti intenti a declinare le loro responsabilità o, viceversa, fin troppo presenti. Dunque i giovani protagonisti finiscono per “fare famiglia” fra di loro.
Ancora una volta Federico Moccia scrive, sceneggia e dirige una commedia romantica, e ancora una volta crea un mondo di finzione che ha più a che fare con gli spot televisivi della telefonia che con una parvenza di realtà. Il che è più grave nel momento in cui sceglie di parlare di un gruppo di studenti contemporanei, quelli che in questo momento, nel mondo reale, affrontano serie difficoltà e cocenti umiliazioni. Che cosa allontana un film di Moccia dal cinema? Proviamo ad elencare. La voce fuori campo che sostituisce ripetutamente la messa in scena. I dialoghi improntati al format televisivo, a metà fra la sitcom e il reality, con litigi strillati e battute puerili (nonostante uno dei personaggi sia un aspirante comico). Le caratterizzazioni che sembrano non tenere in conto la plausibilità o la coerenza interna dei personaggi. Le numerose sottolineature della trama. La presenza di musica fracassona a riempire i vuoti di dialogo. Gli errori di continuità filmica. I costanti abbracci. Le scene di gruppo da cartolina. I dialoghi giovanilistici (“Oh ragazzi, time out!”).
In Universitari c’è tutto questo, e molto poco in termini di posizionamento creativo della macchina da presa, direzione degli attori, o punto di vista etico ed estetico. L’unica ispirazione cinematografica apparente sono le dramedy americane anni Ottanta – anni in cui l’autore era in età universitaria – come Fame o Breakfast Club. Film più che dignitosi che, trent’anni fa, hanno raccontato la loro epoca, ma che riproposti oggi in chiave italiana, e in un contesto socioeconomico ben diverso, non hanno rispondenza con la contemporaneità. Né, d’altro canto, Moccia compie una precisa scelta stilistica che sposti il registro narrativo verso il surreale, il grottesco, o il satirico.
In questo contesto improbabile spiccano tuttavia alcuni bravi attori, a cominciare da Primo Reggiani (Alessandro, l’aspirante comico), che mette in campo autoironia e spontaneità, ovvero talento e mestiere. Anche Nadir Caselli, Sara Cardinaletti e Maria Chiara Centorami si adoperano con grazia per restituire verità a ruoli altrimenti elementari. E Maurizio Mattioli ci ricorda, nel suo paio di scene, di cosa erano capaci i caratteristi della sua generazione.

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LA FINE DEL MONDO

Gary King ha toccato l’apice della sua esistenza nel 1990 quando con i suoi amici ha tentato di battere in una sola notte i pub di Newton Heaven in un tripudio di aneddoti e ubriacatura, finito senza aver completato il giro (l’ultimo pub, mai raggiunto, si chiama The World’s End) ma comunque in gioia. Vent’anni dopo Gary è un adulto irrisolto, che vive nel passato, fuori da ogni regolarità o da ogni canone di “inserimento nella società” e raccontando la sua esperienza in un gruppo di autoaiuto capisce di doverlo rifare, ritrovare il vecchio gruppo di amici, rimetterli insieme e questa volta battere davvero tutti i pub in una notte. Quello che succederà nel tentare di farlo metterà il gruppo di 5 amici a confronto con una realtà imprevedibile, un incredibile rivoltamento di tutto ciò che sapevano in grado di lasciar emergere il loro vero spirito. Con la trilogia del cornetto (L’alba dei morti dementi, Hot Fuzz e questo film) Edgar Wright e Simon Pegg (oltre che attore anche sceneggiatore) hanno esplorato con una forza e una pregnanza sconosciute al cinema d’intrattenimento spettacolare, la maniera in cui il quotidiano inquini l’umano ovvero il progressivo diventare “mostri” degli esseri umani quando, una volta cresciuti, sono inseriti nel sistema lavorativo-familiare. E questo svelamento avviene spesso mettendo a confronto i mostri che i protagonisti sono ad inizio film con dei “mostri” da cinema, come gli zombie di L’alba dei morti dementi. Nelle storie di Pegg e Wright spesso si scopre che, sebbene le combattiamo, forse ci siamo diventati come quelle creature che i film ci hanno raccontato e non ce ne rendiamo conto. E anche in questo film emergeranno figure prese dalla storia del cinema di fantascienza anni ’50 che non sono lontane da ciò che i personaggi mostrano di essere all’inizio della trama. Wright è l’unico a parlare questa lingua, l’unico che riesca a trasmettere temi e intuizioni bergmaniane ad un pubblico che chiede un cinema d’azione e intrattenimento spielberghiano, l’unico a padroneggiare il linguaggio per immagini ad un livello che gli consenta di potersi divertire con gli artifici retorici più classici del cinema, piegandoli a piacimento, mescolando riferimenti a tutto il conoscibile (forse l’unica pecca del film, eccessivamente impegnato nel far cogliere a tutti le sue citazioni). In La fine del mondo si ammira quel raro processo narrativo per il quale la dimensione epica delle imprese personali è immaginata da chi le vive in quella cinematografica. Vivere come al cinema, immaginando se stessi come protagonisti di un film e quindi diventarlo, ovvero ingrandire i sentimenti filmando di fatto un mondo interiore attraverso gli stereotipi del cinema (quello d’azione eccessivo di Michael Bay in Hot Fuzz o l’horror classico in L’alba dei morti dementi). Creando una sorta di “epica del pub” (con i suoi luoghi tipici, le sue consuetudini e caratteristiche precipue) La fine del mondo narra un viaggio fantastico nel rimosso personale. Gary e i suoi amici all’inizio della storia sembrano voler rimettere in scena il proprio passato e finiscono per trovare più di quanto cercassero, confrontandosi fisicamente con degli avversari che spiritualmente costituiscono quello che hanno messo sotto il tappeto, la loro storia personale lasciata sedimentare dai tempi del liceo. Materialmente incontrano ciò che si sono lasciati dietro, per affrontarlo solo dopo diverse pinte di birra quando l’alcol li priverà delle inibizioni maturate in una vita da persone regolari, rendendoli di nuovo liberi. Ma il risultato di tutto ciò, e qui sta la differenza tra il cinema di Pegg-Wright e quello di tutti gli altri, non sarà la ricomposizione di un equilibrio come lo si intende solitamente.

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BLING RING

Los Angeles un gruppo di adolescenti si dedica a un’attività piuttosto inconsueta. Irresistibilmente attratti dal glamour della vita delle star individuano le loro abitazioni e, in loro assenza, rubano tutti gli oggetti che, ai loro occhi, appaiono come status symbols. Prima di essere individuati dagli investigatori avevano già accumulato una refurtiva di più di tre milioni di dollari; tra le loro vittime ci sono stati (si tratta di fatti realmente accaduti) Paris Hilton e Orlando Bloom. Sofia Coppola al suo quinto lungometraggio conferma la propria attrazione, che possiamo ormai definire autoriale, per il mondo dell’adolescenza. Dopo le vergini suicide e la giovane Scarlett Johansson lost in una translation esistenziale. Dopo l’inedito e coloratissimo ritratto di Marie Antoinette e la struggente solitudine della Cloe di Somewhere questa volta il suo sguardo si sposta su un gruppo di 4 fanciulle della City of Angels che coinvolgono un loro coetaneo, arrivato da fuori, nelle loro imprese. Forse il motivo è da ricercarsi nell’ombra che papà Francis Ford ha gettato con la sua imponente presenza sulla sua fase di passaggio dall’infanzia all’età adulta. Sta di fatto che gli eventi che erano accaduti qualche anno fa e ai quali la regista non aveva prestato un particolare interesse divengono ora un film. Lo sguardo della sempre più adulta Sofia non condanna i propri protagonisti. Compie un’azione ancor più dolente e incisiva: li osserva e descrive con il senso di impotenza di chi ha ben chiare le cause dell’amoralità che li pervade e al contempo si chiede se e come si possa tornare alla ‘sana’ trasgressione che ha segnato in tutte le epoche la fase dell’adolescenza. Perché  ciò che più sconcerta, insieme alle loro dichiarazioni a posteriori desolatamente ‘vere’,  è il compulsivo bisogno di Nicki, Sam, Mark, Chloe e Rebecca non di opporsi al mondo degli adulti ma di conformarvisi attraverso quegli oggetti e quei gadget che ne identificano  a livello comunicativo il potere. È come se il potere ilusionistico dell’omologazione non avesse più dinanzi a sé alcun ostacolo nella propria marcia universale. Perché le vicende che qui si raccontano sono accadute negli Stati Uniti ma avrebbero potuto trovare cittadinanza pressoché ovunque. Da quando il desiderio di avere ha di gran lunga surclassato quello di essere, un virus sembra essersi annidato in ciò che resta delle coscienze. Sofia Coppola ce ne mostra una manifestazione utilizzando uno stile che sa, anche questa volta, adattare alla storia che ha deciso di raccontare. Abbandonati i tempi dilatati di Somewhere in The Bling Ring a dominare è il ritmo, quasi sempre incalzante e dettato dalla  musica, di una coazione a ripetere la cui meta finale è il vuoto pneumatico interiore. Rivestito però dalle migliori griffes.

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ANNI FELICI

Nell’anno del referendum sul divorzio, l’Italia di Daniele Luchetti è una famiglia romana in preda al fervore dei tempi tra aspirazioni artistiche d’avanguardia, comodità piccolo borghesi, istanze femministe e amore libero. Guido è un padre sui generis, pittore e scultore, elettosi rappresentante della nuova arte concettuale più per adesione alla moda del periodo che per un’autentica necessità artistica. Di giorno, nel suo laboratorio negli orti della Lungara, trasgredisce le convenzioni sociali modellando i corpi di ragazze accondiscendenti con i nuovi materiali imposti dall’avanguardia, di sera impartisce lezioni sul bello nell’arte dopo la rivoluzione concettuale ai due figli di dieci e cinque anni, Dario e Paolo. La moglie Serena, figlia benestante di solidi commercianti della piccola borghesia cittadina, è una donna semplice attraversata però da una profonda inquietudine che la porterà dall’amore devoto verso un marito libertino alla scoperta del femminismo come riscatto del sé e come esperienza di un sentimento amoroso diverso.
Quest’ultimo film di Luchetti aveva un titolo provvisorio, Storia mitica della mia famiglia capace di definire i margini di un’operazione biografica (storia della mia famiglia) trasfigurata dalla memoria di sentimenti sedimentati nel tempo (storia mitica). Nel corso della lavorazione, il gesto coraggioso della dichiarazione auto-biografica ha lasciato il passo a un titolo nostalgico, Anni felici, che suona come giudizio amaro per una storia famigliare contrastata che il regista, al tempo testimone bambino, avrebbe voluto cogliere in tutta la sua contradditoria vitalità.
In una delle prime inquadrature del film, affisso su di un muro, fa capolino un manifesto elettorale che recita così: “Le donne della famiglia Cervi dicono di NO”. Dichiarazione misteriosa se non fosse il 1974, anno del referendum abrogativo della legge che quattro anni prima aveva istituito in Italia il divorzio. A dire NO sul quel manifesto è l’autorevolezza delle donne di una tristemente famosa famiglia anti-fascista i cui uomini (i sette fratelli Cervi) furono fucilati dai fascisti nel ’43 (Irnes Cervi, moglie di Agostino, molto si spese per affermare i diritti delle donne). Questo piccolo dettaglio, sullo sfondo murale di un dialogo coniugale, definisce il contesto sociale della storia di una famiglia attraversata per quel che la riguarda dall’impeto dei tempi (divorzio, femminismo, arte concettuale, trasgressione matrimoniale, amore lesbico…), vissuto come di rimbalzo, attori involontari ed etero-diretti.
Gli Anni felici di Luchetti sono però anche gli “anni di piombo”, quelli – per rimanere nel ’74 – della strage a Piazzale della Loggia a Brescia (28 maggio), della bomba sull’Italicus (4 agosto) della crisi energetica e dell’austerità.  Sorprende un po’ che la Roma di Guido e Serena non risenta minimamente di quell’atmosfera, riportando invece una dimensione dinamica, una scena artistica vissuta ardentemente tra gallerie d’arte e triennali milanesi, molto colorata e trasgressiva, come voleva essere. Il motivo è presto detto: tutti gli eventi sono filtrati dalla memoria emotiva di un bambino di dieci anni, Dario (alter-ego del regista), figlio e testimone muto di quella stagione dalla quale ha voluto espungere il contesto politico per isolare quello famigliare e sociale (l’avvento del femminismo). Se volessimo considerare questo film come il terzo passaggio di un’ideale trilogia, vien facile dire che il racconto storico-politico si sia esaurito in Mio fratello è figlio unico, mentre quello sull’oggi da La nostra vita. Il terzo atto quindi si insinua in un’altra dimensione che non è più né storica né politica, ma potremmo dire emotiva e personale.
Ecco, allora che s’arriva a una novità, anche estetica, non indifferente per Luchetti. Sebbene Anni felici sia un film d’invenzione, la storia è quella della sua famiglia, ed il vero e il falso si intrecciano uniti dal filo rosso dei ricordi emozionali.
Ad avvalorare questa premessa è la scelta della voce-off: a “recitarla” è lo stesso Luchetti che impersona il personaggio di fantasia, il bambino Dario (suo alter-ego) che a distanza di anni racconta gli eventi del ’74. Ecco che subentra nel cinema di Luchetti la “prima persona” nella formula, già scandagliata in letteratura dell’auto-fiction, anticipata dal Caro diario di Nanni Moretti, suo amico e maestro.
Luchetti è un regista dalla vocazione narrativa tradizionale, eppure ha saputo dimostrare soprattutto negli ultimi film una certa curiosità verso altri linguaggi ed esperienze cinematografiche. Ad esempio, l’idea dei dialoghi fuori fuoco, sporchi e sovrapposti, vicina al “cinema del reale” di Garrone, hanno influenzato l’estetica meno convenzionale di Mio fratello è figlio unico e La nostra vita. L’avvento della prima persona, l’uso dei filmini famigliari (anche se qui ricostruiti) in super 8, il discorso legato al femminismo, a noi hanno fatto pensare alle esperienze dell’altro cinema italiano, documentario e di montaggio. Chissà de Lucchetti l’ha in qualche modo assorbita.
A parte i riferimenti, involontari o meno, Anni felici si pone come un film solidamente convenzionale (forse un po’ troppo) e saldamente narrativo, che molto s’appoggia sulla perfomance dei due attori protagonisti. Kim Rossi Stuart, com’è del suo metodo recitativo, trasforma in modo autoriale il personaggio nella somma delle sue complessità, dando spessore e corpo a una figura sulla carta fragile, tutta schiacciata da un’ossessione artistica fasulla e da un narcisismo quasi adolescenziale. Micaela Ramazzotti, istintiva e fisica, sembra affidarsi alla scrittura, un po’ come il suo personaggio, scoprendo poi una profondità emotiva e un’istanza di genere impreviste.
C’è però qualcosa che non torna in Anni felici, anche se tutto sembra essere al suo posto. Non è facile capire cosa. Forse il fatto che Luchetti non è riuscito a prendere, anche legittimamente, la giusta distanza. È troppo dentro per vedersi da fuori. Forse anche lui è vittima a posteriori di un narcisismo represso, tant’è che il film chiosa con l’affermazione urlata del proprio Io. Dei suoi ultimi tre film, questo è forse il più fragile ma certo comunque autentico e onesto, anche solo per aver avuto il coraggio di ri-affermare che per lui il personale è politico.

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