Archivio per la categoria Fantascienza

THOR – THE DARK WORLD

Con il fratello Loki imprigionato dopo i fattacci narrati in Avengers e i nove mondi pacificati, Thor nei grandi palazzi di Asgard ha tempo di perdersi appresso alla nostalgia amorosa che da due anni lo separa dall’umana conosciuta nel primo film. Nel frattempo lei, sulla Terra, studiando delle anomalie comparse a Londra viene risucchiata da un portale e contaminata dall’Aether, una forza da millenni nascosta al malvagio Malekith e la sua razza che, proprio per l’unione tra la terrestre e la sostanza, si risveglia.
Determinato a trovare l’Aether e con questo sfruttare l’allineamento dei nove mondi per instaurare un regno d’oscurità, Malekith marcia per annichilire innanzitutto Asgard e poi la Terra.
Con Thor: the dark world parte la “seconda stagione” dei Vendicatori, quella che passerà per il secondo film di Capitan America, I guardiani della galassia e altri fino a giungere a Avengers: Age of Ultron. La serializzazione del cinema di grande incasso compie un nuovo passo in avanti in questo senso e i Marvel Studios dimostrano di ragionare come la casa editrice di fumetti che sono, trattando ogni film come un albo, portando avanti una trama autoconclusiva assieme a una sottotrama più grande che confluirà nel film che riunisce tutti i personaggi, ovvero il “finale di stagione”.
Di certo dopo un primo fiacchissimo film incautamente affidato a Kenneth Branagh, Thor ha ora un trattamento a livello degli altri supereroi Marvel, con un film che non si perde nel cercare di elevare la materia che tratta ma che invece ne cavalca la sua componente più facile ed immediata per trovare l’intrattenimento e il divertimento più genuini. Merito di un team creativo che proviene dalla serialità televisiva e molto a suo agio con i personaggi Marvel.
È proprio questa resa al tono e al mood dei fumetti seriali americani di grande tiratura la caratteristica più evidente di questo nuovo film Marvel Studios. Se fino a ieri erano l’Hulk di Ang Lee o Scott Pilgrim vs. the world di Edgar Wright gli esempi più interessanti di fusione tra linguaggio del cinema e dei fumetti, adesso il cinema Marvel sta cercando un altro percorso per questa fusione e non intende farlo passando per montaggio o replica del sistema “a tavole” ma passando per la leggerezza e frivolezza con cui si raccontano apocalissi indicibili e per il rapporto che la storia instaura con lo spettatore. Non è difficile infatti intravedere in Thor: the dark world le fantasie di onnipotenza (vivere la vita reale e risolvere problemi reali con poteri immaginari) che si trovano anche in Spider-Man o negli X-Men (fumetti e film) e che mancavano al film precedente, il segno più evidente di un rinnovato approccio più in linea con il target d’elezione.

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ESCAPE PLAN – FUGA DALL’INFERNO

Ray Breslin è un esperto mondiale di sicurezza delle strutture carcerarie, tanto che ha passato metà della propria vita ad evadere dalle prigioni nelle quali era entrato sotto copertura, per provarne le falle. Proprio quando sta pensando di ritirarsi, un’offerta senza precedenti lo spinge ad accettare un ultimo incarico: testare il penitenziario segreto di massima sicurezza detto “la Tomba”. Ingannato e incastrato, Breslin sembra condannato a restare sepolto vivo, ma la complicità con il detenuto Rottmayer lo motiva a non desistere.
C’è qualcosa di romantico, che eleva e sabota allo stesso tempo Escape Plan. La vecchia coppia Stallone-Schwarzenegger, che ha passato anni a gareggiare sul centimetro in più di rigonfiamento del supinatore e si trova oggi a fare colazione insieme in prigione, costruendo bussole di carta sotto il banco e inscenando una scazzottata per amore dei fan, ispira una tenerezza che finisce per smorzare l’impatto di un contesto effettivamente da incubo, in cui i diritti umani non esistono, le guardie non hanno volto, la sentenza non ha appello possibile e la natura privata e segreta di questo brevetto di morte ne assicura l’invisibilità assoluta.
Allo stesso tempo, però, quest’aura da vecchi tempi (e modi del cinema), fatta di stratagemmi alla Lupin e prove fisiche da supereroi senz’armatura, dà sapore ed entusiasmo ad uno script ben poco verosimile, nel quale l’evasione del prologo -che serve unicamente a presentare il personaggio di Sly- è quasi più complessa e incredibile di quella al centro del racconto.
E non sono nemmeno i colpi di scena (o supposti tali) a tenerci attaccati allo schermo, ma piuttosto quel carattere di umanesimo, più ingenuo che retorico, che Stallone infonde da sempre alle operazioni cui partecipa e che ben si abbina al tocco più leggero del suo partner. Non è il regista, dunque, a fare la differenza, non il copione né l’ambientazione suggestiva (ricreata all’interno di una mega struttura della NASA a New Orleans): ancora una volta, come nei “Mercenari”, è una questione di spirito. Stallone e Schwarzy incarnano letteralmente, nei loro corpi forti ma provati, lo spirito di chi non si arrende, offrendo allo script un senso che nessun’altra star, più giovane e prestante, avrebbe potuto offrire. Di più non si può chiedere; non si va oltre l’intrattenimento in tempo reale, ma la nota romantica ne fa un film paradossalmente più duro di quanto avrebbe fatto la sola nota fisica.

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PHANTOM

1968. Al capitano Demi viene assegnata un’ultima missione prima del pensionamento. Deve guidare l’ormai obsoleto sottomarino diesel K-129 alla sua ultima destinazione prima che venga riciclato per la vendita alla Marina Cinese. Ma è proprio su questo elemento che conta la parte più oltranzista del KGB guidata da Bruni che ha imposto i suoi uomini a bordo: attaccare con una testata nucleare la flotta statunitense attribuendo poi la responsabilità dell’azione di guerra ai cinesi. Sarebbe lo scoppio della terza guerra mondiale da cui i russi si potrebbero tenere fuori lasciando che i due contendenti si distruggano a vicenda.
La lettura della sinossi può far pensare a una sceneggiatura a base spionistica scritta da un autore dotato di buona fantasia. Si tratta invece di ciò che, a buon diritto, si può ritenere sia effettivamente accaduto nel bel mezzo della Guerra Fredda e che è stato ricostruito grazie alle teorie (controverse ma sostenute dal ritrovamento di una testata nucleare sovietica in mare) sostenute da John P. Craven e Kenneth Sewell.
Il genere bellico ha dato origine, come si sa, al sottogenere dei sottomarini in azione di combattimento che ha fornito buone prove con film come Mare caldo, U-Boot 96, Caccia a Ottobre Rosso e quel piccolo capolavoro di commedia che è Operazione sottoveste. In questa occasione siamo di fronte a una ricostruzione molto tecnica nel linguaggio utilizzato ma anche intimistica nel momento in cui si addentra nella psicologia del protagonista. Perché il capitano Demi ha passato una vita a tentare di liberarsi dalla ingombrante ombra paterna nonché dal ricordo di una tragedia che era costata il sacrificio di molti uomini. Ora si trova, in età avanzata, a dover prendere decisioni che vanno contro a ciò che la cosiddetta patria gli sta chiedendo. L’obiettivo è la salvezza di larga parte dell’umanità. Ed Harris sa reggere, come sempre, il ruolo grazie al suo volto su cui i segni del tempo hanno lasciato traccia senza però intaccare uno sguardo la cui espressività è ben nota. Si trova a fronteggiare, nei panni del fanatico disposto a tutto un David Duchovny che mostra la freddezza necessaria per caratterizzare un individuo disposto a tutto in nome dell’ideologia.

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LA FINE DEL MONDO

Gary King ha toccato l’apice della sua esistenza nel 1990 quando con i suoi amici ha tentato di battere in una sola notte i pub di Newton Heaven in un tripudio di aneddoti e ubriacatura, finito senza aver completato il giro (l’ultimo pub, mai raggiunto, si chiama The World’s End) ma comunque in gioia. Vent’anni dopo Gary è un adulto irrisolto, che vive nel passato, fuori da ogni regolarità o da ogni canone di “inserimento nella società” e raccontando la sua esperienza in un gruppo di autoaiuto capisce di doverlo rifare, ritrovare il vecchio gruppo di amici, rimetterli insieme e questa volta battere davvero tutti i pub in una notte. Quello che succederà nel tentare di farlo metterà il gruppo di 5 amici a confronto con una realtà imprevedibile, un incredibile rivoltamento di tutto ciò che sapevano in grado di lasciar emergere il loro vero spirito. Con la trilogia del cornetto (L’alba dei morti dementi, Hot Fuzz e questo film) Edgar Wright e Simon Pegg (oltre che attore anche sceneggiatore) hanno esplorato con una forza e una pregnanza sconosciute al cinema d’intrattenimento spettacolare, la maniera in cui il quotidiano inquini l’umano ovvero il progressivo diventare “mostri” degli esseri umani quando, una volta cresciuti, sono inseriti nel sistema lavorativo-familiare. E questo svelamento avviene spesso mettendo a confronto i mostri che i protagonisti sono ad inizio film con dei “mostri” da cinema, come gli zombie di L’alba dei morti dementi. Nelle storie di Pegg e Wright spesso si scopre che, sebbene le combattiamo, forse ci siamo diventati come quelle creature che i film ci hanno raccontato e non ce ne rendiamo conto. E anche in questo film emergeranno figure prese dalla storia del cinema di fantascienza anni ’50 che non sono lontane da ciò che i personaggi mostrano di essere all’inizio della trama. Wright è l’unico a parlare questa lingua, l’unico che riesca a trasmettere temi e intuizioni bergmaniane ad un pubblico che chiede un cinema d’azione e intrattenimento spielberghiano, l’unico a padroneggiare il linguaggio per immagini ad un livello che gli consenta di potersi divertire con gli artifici retorici più classici del cinema, piegandoli a piacimento, mescolando riferimenti a tutto il conoscibile (forse l’unica pecca del film, eccessivamente impegnato nel far cogliere a tutti le sue citazioni). In La fine del mondo si ammira quel raro processo narrativo per il quale la dimensione epica delle imprese personali è immaginata da chi le vive in quella cinematografica. Vivere come al cinema, immaginando se stessi come protagonisti di un film e quindi diventarlo, ovvero ingrandire i sentimenti filmando di fatto un mondo interiore attraverso gli stereotipi del cinema (quello d’azione eccessivo di Michael Bay in Hot Fuzz o l’horror classico in L’alba dei morti dementi). Creando una sorta di “epica del pub” (con i suoi luoghi tipici, le sue consuetudini e caratteristiche precipue) La fine del mondo narra un viaggio fantastico nel rimosso personale. Gary e i suoi amici all’inizio della storia sembrano voler rimettere in scena il proprio passato e finiscono per trovare più di quanto cercassero, confrontandosi fisicamente con degli avversari che spiritualmente costituiscono quello che hanno messo sotto il tappeto, la loro storia personale lasciata sedimentare dai tempi del liceo. Materialmente incontrano ciò che si sono lasciati dietro, per affrontarlo solo dopo diverse pinte di birra quando l’alcol li priverà delle inibizioni maturate in una vita da persone regolari, rendendoli di nuovo liberi. Ma il risultato di tutto ciò, e qui sta la differenza tra il cinema di Pegg-Wright e quello di tutti gli altri, non sarà la ricomposizione di un equilibrio come lo si intende solitamente.

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RIDDICK – DOMINA L’OSCURITA’

Il ricercato Richard Riddick, che abbiamo già incontrato in Pitch Black e The Chronicles of Riddick, si ritrova su un pianeta brullo e popolato da bestie feroci, lontano da casa e alla mercé dei cacciatori di taglie dell’intera galassia. Il suo obiettivo è ritornare al pianeta Furya e a renderlo possibile, ma anche a mettere in pericolo la sua vita, sono due gruppi di mercenari atterrati proprio allo scopo di catturare Riddick, guidati l’uno dallo psicopatico Santana, l’altro da Johns, combattente intergalattico che ha con il ricercato un antico conto da saldare.
Ancora una volta quella di Riddick è la parabola dell’uomo solo contro un mondo spietato, impegnato a sopravvivere in un universo oscuro nel quale si muove con agilità dopo aver modificato chirurgicamente gli occhi, che ora possono contare su una sorta di visione a raggi infrarossi. Una metafora potente per i nostri tempi bui e la nostra epoca individualista che, nell’episodio iniziale della saga, si era tradotta in un B movie originale e divertente, anche grazie al modesto budget che spingeva il regista David Twohy ad “arrangiarsi” in modo creativo.
Con l’aumento di budget il secondo capitolo si era adagiato sui cliché sacrificando lo spirito irriverente e iconoclasta di Pitch Black al conformismo hollywoodiano. In questo terzo episodio Twohy cerca una difficile sintesi fra lo spirito del B movie originale, evidente nell’ironia con cui vengono descritti i personaggi, e la necessità commerciale di confezionare un blockbuster globalizzato. Il metro con cui Twohy sembra aver concepito questo Riddick è il gusto del quattordicenne cresciuto a videogame: ci sono le scazzottature con i mostri alieni, le armi da fuoco e da taglio gigantesche, le moto spaziali, le donne da calendario (una delle quali è una lesbica da “convertire”), il sangue che sgorga a fiotti.
Un universo preadolescenziale in cui Riddick si aggira esprimendosi per frasi fatte, rivolgendosi prevalentemente a se stesso e confrontandosi con creature delle quali sottolinea immancabilmente l’inferiorità, come fa ogni teenager arrabbiato col mondo. E’ un incrocio fra un supereroe e una divinità mitologica che sopravvive ad ogni traversia e quando è ferito si autoinfligge medicazioni alla Rambo. E poiché nell’episodio precedente si è fatto “cogliere alle spalle”, in questa puntata Riddick decide di ritrovare il suo istinto animale e la sua ferocia ferina: peccato che il finale, che non riveliamo, contraddica questa premessa e tradisca l’essenza autarchica del suo personaggio.
I cattivi, cui è dedicata buona parte della trama (curioso come Vin Diesel, che presta la sua fisicità imponente a Riddick ed è anche coproduttore della saga, sia assente da gran parte di questo episodio), sono una corte di miracoli di sprovveduti, a cominciare dal Santana che Jordi Mollà interpreta come un incrocio fra il Monnezza e Willy Coyote. Nella parte loro dedicata il film sconfina ampiamente nella parodia camp e si presta ad infinite citazioni (“Dì qualcosa di biblico su questi corpi”). Totalmente relegato alle fantasie onanistiche, infine, il personaggio di Dahl, la guerriera che “non fotte gli uomini perché non ce n’è uno che ne valga la pena”.

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INTERVISTA COL VAMPIRO (I GRANDI FILM)

San Francisco. In una stanza d’albergo un giovane giornalista ascolta la storia di Louis: ricco proprietario terriero tormentato dalla perdita della moglie e della figlia, dopo esser stato morso da un vampiro, riemerge dalle acque del Mississippi.
Siamo nel 1791. Sulle rive del fiume, abbandonato da qualche parte fra la vita e la morte, il narratore della vicenda ammira lo splendore dell’alba per l’ultima volta. Lestat, questo il nome dell’assalitore, ben presto diviene suo maestro e compagno di caccia. I due incominciano a mietere vittime alla “Taverne du chat noir”, come negli ambienti nobili di New Orleans (il sangue degli aristocratici eccita Lestat più di ogni altra cosa).
Tuttavia, il giovane vampiro creolo, continua a conservare una sensibilità umana che gli impedisce di assecondare la sua nuova e oscura natura. Suggestiva, a tratti violenta e ambigua deriva vampiresca del genere horror, la pellicola di Neil Jordan, tratta dall’omonimo romanzo cult della scrittrice americana Anne Rice, del 1976 (primo capitolo delle “Cronache dei Vampiri”), ha una struttura narrativa (San Francisco, New Orleans, Parigi, ancora la città sul Mississippi, infine si ritorna a San Francisco) capace di catturare e coinvolgere lo spettatore in un affresco gotico che rivaluta la tradizionale figura del vampiro e le dona nuove e profonde sfumature. Come nel Dracula di Coppola, anche in questo film, attraverso gli occhi di una creatura della notte, il cinema riflette poeticamente su se stesso e sulla magia della propria illusione: in una splendida scena Louis, abbandonato il Vecchio Mondo per tornare nella sua America, scopre quella meravigliosa invenzione tecnica che gli permette di vedere l’alba, per la prima volta, dopo duecento anni. Il cinema, appunto.

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R.I.P.D. – POLIZIOTTI DALL’ALDILA’

Poliziotti a Boston, Nick Walker e Bobby Hayes hanno sottratto una cassa piena d’oro durante un’operazione, ma se il primo, pentito, vorrebbe restituirla, il secondo arriverà addirittura ad uccidere il compare pur di tenerla per sé. Subito dopo la morte, Nick si ritrova in un ufficio del Rest in Peace Department, un agenzia celeste che recluta gli agenti defunti al fine di tornare sulla Terra – in corpi ben diversi dai loro – per controllare le attività di alcuni spiriti malvagi celati sotto sembianze umane. Dal momento che svolgere il compito porterà vantaggio il Giorno del Giudizio, Nick accetta l’incarico. Farà coppia con Roy Pulsipher, sceriffo del vecchio west morto più di un secolo prima.
Basato sulla graphic novel “Rest in Peace Department” di Peter M. Lenkov, pubblicata dalla Dark Horse Entertainment, il quarto film hollywoodiano del tedesco Robert Schwentke ha il coraggio di essere fino in fondo quello che promette. Cioè un giocattolone spavaldo e ridanciano che, partendo da quel paradosso fantastico del ritorno dopo la morte di cui sono pieni tanto la letteratura quanto il cinema, intrattiene e diverte senza mai uscire dai propri prefissati binari. Visualmente interessante, in bilico tra fumetto, videogame e un’estetica dell’eccesso che frulla insieme trovate grottesche e esplosioni di orrore comico, racconta una storia di tradimento e rivalsa mettendo in campo personaggi-cliché buoni per un’ora e mezza di divertimento senza pretese.
Sul Nick di Ryan Reynolds, in parte, ma sempre un tono sotto le sue possibilità, svetta il gioco al massacro che Jeff Bridges compie su se stesso con lo sceriffo Roy Pulsipher, perfetta parodia dei ruoli per cui è celebre: spaccone e cocciuto, per forza di cose fuori da ogni schema, si muove tra il Rooster Cogburn di Il grinta, Bad Blake, Jeffrey Lebowsky, più una spolverata di alcuni personaggi interpretati da Kris Kristofferson.  Poco resta agli altri attori, a partire da un prevedibile Kevin Bacon nella solita parte sgradevole, la francese Stephanie Szostak, come inconsolabile moglie di Nick, o la frizzante Mary-Louise Parker, addetta al reclutamento delle anime con la pistola. Se la sceneggiatura non riserva davvero nessuna sorpresa, il pericolo è niente di meno che una vera e propria apocalisse, una verve comica ben orchestrata riesce in parte a riscattare le varie mancanze, su tutte l’idea degli avatar con cui sono visibili, sulla Terra, Nick e Roy: rispettivamente un vecchio asiatico e una bionda tutte curve. Più che un film sulla redenzione e sulla seconda possibilità, nient’altro che un pretesto di partenza, R.I.P.D. – Poliziotti dall’aldilà è un passatempo innocuo e godibile, perfetto per chi ha la bontà di accettare la sfida.

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BUON FINE D’ANNO 2013

VIDEOTECA SNOOPY di LANDINI MARCO AUGURA BUON FINE D’ANNO A TUTTI!!!!!! E CHE IL 2014 SIA UN ANNO SPECIALE PER TUTTI NESSUNO ESCLUSO SOPRATTUTTO PER CHI HA SOFFERTO DI PIU’ IL 2013 CHE POSSA TROVARE PACE E SERENITA’ IN QUESTO NUOVO ANNO CHE STA PER ARRIVARE E CHE SI LASCI ALLE SPALLE QUELLO CHE NON VUOL RICORDARE. UN ABBRACCIO FORTE!!!!

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SHADOWHUNTERS – LA CITTA’ DI OSSA

Clary Fray è una ragazza della Brooklyn contemporanea che vede ovunque simboli misteriosi e presenze inspiegabili. La madre non l’ha avvertita del suo imminente incontro con gli Shadowhunters, i cacciatori di demoni che popolano un mondo parallelo e con i quali Clary ha un legame ancestrale. Starà alla ragazza, accompagnata dall’amico nerd Simon, scoprire il proprio coinvolgimento nella battaglia contro il Male. E l’incontro con Jace, un affascinante Shadowhunter, darà un’ulteriore svolta alla sua esistenza.
Primo film dedicato alla saga letteraria firmata da Cassandra Clare, Shadowhunters – Città di ossa rientra a pieno titolo in un genere narrativo, e dunque anche cinematografico, a sé: il racconto di iniziazione giovanile che è anche un “viaggio dell’eroe” all’interno di un mondo popolato da creature solo parzialmente di fantasia poiché, come si dice in Shadowhunters, “tutte le favole sono vere”.
Esattamente come le fiabe (soprattutto quelle nere), Shadowhunters costituisce contemporaneamente un esorcismo delle paure giovanili e una lusinga dell’aspirazione all’onnipotenza per una generazione che, nella realtà, si sente oppressa da quelle che l’hanno preceduta. Infatti, come già nella saga di Harry Potter, anche qui gli adulti sono infidi e pronti ad abdicare alle proprie responsabilità di protezione e guida dei giovani, i quali dunque decidono di proteggersi da soli, spesso difendendosi proprio dai “grandi” preposti alla loro tutela. Shadowhunters riserva particolare attenzione all’inaffidabilità dei padri: senza scendere in dettagli, Clary scoprirà che tanto il genitore biologico quanto il patrigno nascondono parecchi segreti, e dovrà decidere se e quando dare loro credito.
Come nella saga di Twilight, anche in Shadowhunters c’è un triangolo amoroso, esacerbato da una scoperta scottante che ha a che fare con i legami famigliari di Clary: da una parte il “mondano” (cioè umano) Simon, innamorato da sempre della sua “migliore amica”, dall’altra il cacciatore Jace. Come in Twilight, uno dei pretendenti tiene ancorata Clary alle sue radici, l’altro la trascina verso il suo destino.
Il parallelo con la saga di Twilight si accentua grazie al casting, che vede Lily Collins (figlia del batterista e cantante Phil) nel ruolo della “ragazza qualunque” scelta per favorire l’identificazione delle spettatrici, e Jamie Campbell Bower, reduce sia daTwilight, dove era il volturo Caius, che da Harry Potter, dove era Gellert Grindelwald, nei panni del tenebroso Jace.
Il tono è stuzzicante ma mai esplicitamente sessuale, spaventoso ma sempre attento a non sconfinare nel divieto ai minori, con un’apertura a temi che riguardano i legami di sangue assai più perturbanti della presenza di streghe e vampiri.
Le scene di azione e gli effetti speciali, in mano al regista norvegese Harald Zwarth, seguono la falsariga della recente scuola europea che abbina la fiaba all’orrore (vedi Hansel e Gretel – Cacciatori di streghe del connazionale Tommy Wirkola) mantenendosi in equilibrio fra i confini riconoscibili e rassicuranti di New York e le passeggiate sull’orlo del baratro di universi atavici e tabù primordiali.
Anche il linguaggio si colloca a metà fra narrazione fantastica e cultura pop, con continui riferimenti all’attualità e all’immaginario collettivo che stemperano la tensione e colorano di autoironia una vicenda intenta a mettere alla prova la nostra capacità di sospensione dell’incredulità.
Shadowhunters fa inoltre parte del recente filone cinematografico dedicato all’empowerment femminile, concentrato soprattutto nei settori animazione (Ribelle) e teenage movie. La creazione di nuove eroine e la rivisitazione delle fiabe classiche in chiave postfemminista (vedi la Biancaneve di Tarsem Singh con protagonista proprio Lily Collins) insegnano alle ragazzine ad avere fiducia nei propri “poteri nascosti” e a diventare protagoniste della propria esistenza, senza aspettare il principe azzurro. Peccato per l’insistenza sul triangolo amoroso che certamente gratifica il lato romantico delle spettatrici, ma rende meno radicale la traiettoria cinematografica dell’emancipazione femminile.

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ELYSIUM

Nella Los Angeles del 2154 l’umanità rimasta sulla Terra è un’unica grande classe operaia, che mescola criminali e lavoratori senza criterio, tutti tenuti a bada e dominati con pugno di ferro attraverso i robot da un’elite che da tempo è andata a vivere su una stazione orbitante intorno al pianeta chiamata Elysium. Su Elysium c’è la tecnologia per guarire da ogni malattia, c’è il verde, il benessere e il disinteresse per ciò che accade più in basso, sulla Terra, dove il resto dell’umanità lavora per mantenere la stazione.
Un giorno un operaio con precedenti penali ha un incidente nella catena di montaggio e viene esposto ad una quantità mortale di radiazioni. Gli rimangono più o meno 5 giorni di vita e l’unica tecnologia in grado di curarlo si trova su Elysium. Per arrivarci senza autorizzazione e senza essere abbattuto prima dell’atterraggio occorrerà fare accordi con i criminali.
Quella della divisione netta tra una piccola fetta di popolazione ricca e dotata di qualsiasi privilegio, che mantiene uno stile di vita spensierato sfruttando il lavoro della massa di poveri, è una delle distopie cinematografiche più frequenti, una visione iperbolica del nostro presente proiettata in un futuro deteriore che ha contaminato tutto il cinema fin da Metropolis. E che proprio ad un regista come Neil Blomkamp sia stato affidato un film con una premessa così consueta è la pecca produttiva più grande del film. Nelle mani dell’autore di District 9 la storia è naturalmente sbilanciata verso il mondo dei poveri, ritratto con ammirabile dettaglio e mania per la creazione di meccanismi vessatori, scenari disperati e incubi operai, prelevati da un immaginario che poco ha a che vedere con la fantascienza ma pesca a piene mani dal cinema più realistico e sociale.
Purtroppo però Elysium nel portare avanti la sua storia di rivoluzione operaia e riconquista della giustizia a dispetto del progresso tecnologico non riesce a trovare il furore del film precedente, nè quell’equilibrio tra finzione e metafora del reale che avrebbe consentito di portare un passo più avanti l’usuale sottotesto sociale del cinema distopico. Solo le astronavi colme di disperati in cerca di salvezza che vengono abbattutte senza pietà prima di arrivare su Elysium, riescono ad essere un’immagine dotata della forza e dell’intelligenza che riconosciamo al regista sudafricano.
Semmai è più interessante la visione che Blomkamp ha della Los Angeles del 2154, totalmente bilingue (inglese-spagnolo), quasi uguale a quella contemporanea nelle tecnologie e nella moda (veicoli volanti a parte), colma di rifiuti come in Wall-E e non lontana per certi versi dalla fantascienza anni ’60, quella dei robot ubiqui che sembrano pupazzoni inerti da fiera di paese. Andando a girare il suo antifuturo nelle vere baraccopoli del Messico, Elysium svela la vicinanza con l’oggi e come la parte più cara all’autore non sia la lotta per la conquista del benessere che i ricchi tengono per sè (ben rappresentato dalla possibilità di guarire da ogni malattia) o lo scontro fisico con i luogotenenti di Elysium presenti sulla Terra (che appare molto forzato nella sua lunghezza) ma sia invece lo sforzo disperato costituito dal sopravvivere e crescere nei ghetti o nelle periferie del pianeta, evitando come possibile l’ubiqua criminalità e inseguendo la vaga speranza di un domani migliore. L’epica di un futuro in cui tutto è andato male che è visivamente identico all’oggi.

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