Archivio per gennaio 2014

IL CACCIATORE DI DONNE

Jack Holcombe è un detective della polizia dell’Alaska in procinto di ritirarsi dal servizio. Gli viene affidato un caso estremamente complesso. C’è un serial killer che attira giovani donne, le incatena, le violenta e poi le uccide. Jack sospetta di una persona apparentemente tranquilla: Robert Hansen. Occorrono però prove schiaccianti contro di lui e potrebbero arrivare dalla testimonianza di Cyndy Paulsen che è riuscita a scappare prima di essere uccisa. Cyndy però è una ragazza complicata e indurla a testimoniare non è facile.
Ispirato a delitti realmente accaduti questo film torna a mettere l’uno di fronte all’altro Nicholas Cage e John Cusack che non si incontravano dai tempi di Con Air. Questa volta il confronto è a distanza con l’eccezione dell’ultima parte del film e la bilancia pende a favore di un maggiore spazio offerto alla psicologia del detective (Cage) rispetto a quella del killer (Cusack). Se infatti di Jack comprendiamo le motivazioni (spora a tutte un senso di protezione paterna) che lo spingono a cercare di risolvere il caso, Robert viene soprattutto mostrato in azione e i motivi (se così si possono chiamare) per cui uccide vengono più detti degli altri che non fatti emergere dalla sua presenza sulla scena. In realtà però il film (che ripercorre luoghi ormai più che comuni del genere) ha il pregio di centrare l’attenzione sulla fragilità di Cyndy Paulsen interpretata con grande adesione da Vanessa Hudgens.
Non è facile rendere le variazioni di umore, le paure, le insofferenze, le ricadute di una ragazzina finita nel giro della prostituzione soprattutto quando la vera Cyndy è tuttora vivente. In proposito va segnalata una nota stonata nei titoli di coda. Le immagini che vi appaiono (che si spera siano state autorizzate) contrastano con la musica che le accompagna. Quello che avrebbe dovuto essere un omaggio si trasforma in un macabro elenco.

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RUSH

L’austriaco Niki Lauda e l’inglese James Hunt s’incontrano per la prima volta sui circuiti di Formula 3. Uno è metodico, razionale, non particolarmente simpatico; l’altro è un playboy, che si gode la vita e corre come se non ci fosse un domani. La loro rivalità diverrà storica e segnerà una stagione incredibile della Formula 1, fatta di drammi indelebili e miracolose riprese.
Come spesso accade con il miglior cinema classico americano, è il contributo delle parti a fare il tutto, ma è un tutto che poi si presenta compatto e coerente, non più smontabile e perfettamente aerodinamico, per restare in tema. La sceneggiatura di Peter Morgan è buona, ma non garantirebbe il risultato se non ci fossero le sfumature portate dagli attori, i loro sguardi, le loro ombre: un capitale che in questo lavoro pesa moltissimo, responsabile del mistero umano dietro i fatti storici e mediatici, che il copione da solo non arriva a disegnare, nemmeno laddove si arrischia in territori arditi e scivolosi, come la chiosa esplicita o la conclusione letteraria. Scrittura e interpretazione, a loro volta, non sarebbero sufficienti se non si combinassero con il lavoro ispirato di scenografi e costumisti, con una produzione europea di grande rispetto (già meritoria del documentario Senna di Asif Kapadia) e soprattutto con una regia in qualche modo “profana” come questa. L’estraneità di Ron Howard al mondo della Formula 1, infatti, che fino ad ora non rientrava nei suoi interessi né nelle sue conoscenze, è probabilmente il quid che suggella la combinazione ottimale delle parti nella confezione del tutto.
Evidentemente incapace di affezionarsi al dettaglio meccanico così come alla passione propriamente sportiva, elementi comunque interni e organici alla vicenda, Howard evita in un sol colpo ogni pit stop a rischio di retorica, concentrandosi solo e soltanto sul vampirismo reciproco tra i “duellanti” in gara e realizzando uno dei suoi film migliori, vivace, pulito, lanciato dritto alla meta.
Sexy e dannati come rockstars, novelli Icaro con una bara ambulante al posto delle ali -per assaporare l’ebbrezza del volo (James “Thor” Hunt) o sfidare il demiurgo sul terreno stesso della creazione (Lauda si occupava personalmente delle migliorìe alla vettura)-, Hunt e Lauda servono al regista come Caino e Abele, archetipi di una doppiezza in cui i termini si definiscono solo reciprocamente, per contrasto, ma anche per narrare con i mezzi dell’oggi la storia di un passato che non c’è più, dove l’individuo era ancora al centro della pista ed era il suo carisma o il suo capriccio a decidere la gara, non lo sponsor né la dittatura della televisione.

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UNIVERSITARI – MOLTO PIU’ CHE AMICI

Il romano Carlo, il palermitano Alessandro e l’iraniano Faraz sono studenti universitari che vivono insieme in un’ex clinica fatiscente e si ritrovano a condividere gli alloggi con tre studentesse: Giorgia, Francesca ed Emma. La convivenza si rivelerà burrascosa ma anche foriera di inattesi legami. Intorno ai sei ragazzi si muovono infatti docenti scorretti, amanti quarantenni, genitori esigenti o eternamente litigiosi, un microcosmo di adulti intenti a declinare le loro responsabilità o, viceversa, fin troppo presenti. Dunque i giovani protagonisti finiscono per “fare famiglia” fra di loro.
Ancora una volta Federico Moccia scrive, sceneggia e dirige una commedia romantica, e ancora una volta crea un mondo di finzione che ha più a che fare con gli spot televisivi della telefonia che con una parvenza di realtà. Il che è più grave nel momento in cui sceglie di parlare di un gruppo di studenti contemporanei, quelli che in questo momento, nel mondo reale, affrontano serie difficoltà e cocenti umiliazioni. Che cosa allontana un film di Moccia dal cinema? Proviamo ad elencare. La voce fuori campo che sostituisce ripetutamente la messa in scena. I dialoghi improntati al format televisivo, a metà fra la sitcom e il reality, con litigi strillati e battute puerili (nonostante uno dei personaggi sia un aspirante comico). Le caratterizzazioni che sembrano non tenere in conto la plausibilità o la coerenza interna dei personaggi. Le numerose sottolineature della trama. La presenza di musica fracassona a riempire i vuoti di dialogo. Gli errori di continuità filmica. I costanti abbracci. Le scene di gruppo da cartolina. I dialoghi giovanilistici (“Oh ragazzi, time out!”).
In Universitari c’è tutto questo, e molto poco in termini di posizionamento creativo della macchina da presa, direzione degli attori, o punto di vista etico ed estetico. L’unica ispirazione cinematografica apparente sono le dramedy americane anni Ottanta – anni in cui l’autore era in età universitaria – come Fame o Breakfast Club. Film più che dignitosi che, trent’anni fa, hanno raccontato la loro epoca, ma che riproposti oggi in chiave italiana, e in un contesto socioeconomico ben diverso, non hanno rispondenza con la contemporaneità. Né, d’altro canto, Moccia compie una precisa scelta stilistica che sposti il registro narrativo verso il surreale, il grottesco, o il satirico.
In questo contesto improbabile spiccano tuttavia alcuni bravi attori, a cominciare da Primo Reggiani (Alessandro, l’aspirante comico), che mette in campo autoironia e spontaneità, ovvero talento e mestiere. Anche Nadir Caselli, Sara Cardinaletti e Maria Chiara Centorami si adoperano con grazia per restituire verità a ruoli altrimenti elementari. E Maurizio Mattioli ci ricorda, nel suo paio di scene, di cosa erano capaci i caratteristi della sua generazione.

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PHANTOM

1968. Al capitano Demi viene assegnata un’ultima missione prima del pensionamento. Deve guidare l’ormai obsoleto sottomarino diesel K-129 alla sua ultima destinazione prima che venga riciclato per la vendita alla Marina Cinese. Ma è proprio su questo elemento che conta la parte più oltranzista del KGB guidata da Bruni che ha imposto i suoi uomini a bordo: attaccare con una testata nucleare la flotta statunitense attribuendo poi la responsabilità dell’azione di guerra ai cinesi. Sarebbe lo scoppio della terza guerra mondiale da cui i russi si potrebbero tenere fuori lasciando che i due contendenti si distruggano a vicenda.
La lettura della sinossi può far pensare a una sceneggiatura a base spionistica scritta da un autore dotato di buona fantasia. Si tratta invece di ciò che, a buon diritto, si può ritenere sia effettivamente accaduto nel bel mezzo della Guerra Fredda e che è stato ricostruito grazie alle teorie (controverse ma sostenute dal ritrovamento di una testata nucleare sovietica in mare) sostenute da John P. Craven e Kenneth Sewell.
Il genere bellico ha dato origine, come si sa, al sottogenere dei sottomarini in azione di combattimento che ha fornito buone prove con film come Mare caldo, U-Boot 96, Caccia a Ottobre Rosso e quel piccolo capolavoro di commedia che è Operazione sottoveste. In questa occasione siamo di fronte a una ricostruzione molto tecnica nel linguaggio utilizzato ma anche intimistica nel momento in cui si addentra nella psicologia del protagonista. Perché il capitano Demi ha passato una vita a tentare di liberarsi dalla ingombrante ombra paterna nonché dal ricordo di una tragedia che era costata il sacrificio di molti uomini. Ora si trova, in età avanzata, a dover prendere decisioni che vanno contro a ciò che la cosiddetta patria gli sta chiedendo. L’obiettivo è la salvezza di larga parte dell’umanità. Ed Harris sa reggere, come sempre, il ruolo grazie al suo volto su cui i segni del tempo hanno lasciato traccia senza però intaccare uno sguardo la cui espressività è ben nota. Si trova a fronteggiare, nei panni del fanatico disposto a tutto un David Duchovny che mostra la freddezza necessaria per caratterizzare un individuo disposto a tutto in nome dell’ideologia.

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GETAWAY – VIA DI FUGA

locandina di Getaway - Via di fuga

La trama

Brent Magna (Ethan Hawke), esperto pilota automobilistico, è spinto verso una mortale missione al volante quando sua moglie viene rapita. Con unica alleata una giovane hacker (Selena Gomez), l’unica speranza che Brent ha di salvare la moglie è di seguire gli ordini impartiti da una voce misteriosa (Jon Voight) che segue ogni sua mossa attraverso delle piccole telecamere installate nell’auto che sta guidando.

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LA FINE DEL MONDO

Gary King ha toccato l’apice della sua esistenza nel 1990 quando con i suoi amici ha tentato di battere in una sola notte i pub di Newton Heaven in un tripudio di aneddoti e ubriacatura, finito senza aver completato il giro (l’ultimo pub, mai raggiunto, si chiama The World’s End) ma comunque in gioia. Vent’anni dopo Gary è un adulto irrisolto, che vive nel passato, fuori da ogni regolarità o da ogni canone di “inserimento nella società” e raccontando la sua esperienza in un gruppo di autoaiuto capisce di doverlo rifare, ritrovare il vecchio gruppo di amici, rimetterli insieme e questa volta battere davvero tutti i pub in una notte. Quello che succederà nel tentare di farlo metterà il gruppo di 5 amici a confronto con una realtà imprevedibile, un incredibile rivoltamento di tutto ciò che sapevano in grado di lasciar emergere il loro vero spirito. Con la trilogia del cornetto (L’alba dei morti dementi, Hot Fuzz e questo film) Edgar Wright e Simon Pegg (oltre che attore anche sceneggiatore) hanno esplorato con una forza e una pregnanza sconosciute al cinema d’intrattenimento spettacolare, la maniera in cui il quotidiano inquini l’umano ovvero il progressivo diventare “mostri” degli esseri umani quando, una volta cresciuti, sono inseriti nel sistema lavorativo-familiare. E questo svelamento avviene spesso mettendo a confronto i mostri che i protagonisti sono ad inizio film con dei “mostri” da cinema, come gli zombie di L’alba dei morti dementi. Nelle storie di Pegg e Wright spesso si scopre che, sebbene le combattiamo, forse ci siamo diventati come quelle creature che i film ci hanno raccontato e non ce ne rendiamo conto. E anche in questo film emergeranno figure prese dalla storia del cinema di fantascienza anni ’50 che non sono lontane da ciò che i personaggi mostrano di essere all’inizio della trama. Wright è l’unico a parlare questa lingua, l’unico che riesca a trasmettere temi e intuizioni bergmaniane ad un pubblico che chiede un cinema d’azione e intrattenimento spielberghiano, l’unico a padroneggiare il linguaggio per immagini ad un livello che gli consenta di potersi divertire con gli artifici retorici più classici del cinema, piegandoli a piacimento, mescolando riferimenti a tutto il conoscibile (forse l’unica pecca del film, eccessivamente impegnato nel far cogliere a tutti le sue citazioni). In La fine del mondo si ammira quel raro processo narrativo per il quale la dimensione epica delle imprese personali è immaginata da chi le vive in quella cinematografica. Vivere come al cinema, immaginando se stessi come protagonisti di un film e quindi diventarlo, ovvero ingrandire i sentimenti filmando di fatto un mondo interiore attraverso gli stereotipi del cinema (quello d’azione eccessivo di Michael Bay in Hot Fuzz o l’horror classico in L’alba dei morti dementi). Creando una sorta di “epica del pub” (con i suoi luoghi tipici, le sue consuetudini e caratteristiche precipue) La fine del mondo narra un viaggio fantastico nel rimosso personale. Gary e i suoi amici all’inizio della storia sembrano voler rimettere in scena il proprio passato e finiscono per trovare più di quanto cercassero, confrontandosi fisicamente con degli avversari che spiritualmente costituiscono quello che hanno messo sotto il tappeto, la loro storia personale lasciata sedimentare dai tempi del liceo. Materialmente incontrano ciò che si sono lasciati dietro, per affrontarlo solo dopo diverse pinte di birra quando l’alcol li priverà delle inibizioni maturate in una vita da persone regolari, rendendoli di nuovo liberi. Ma il risultato di tutto ciò, e qui sta la differenza tra il cinema di Pegg-Wright e quello di tutti gli altri, non sarà la ricomposizione di un equilibrio come lo si intende solitamente.

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BLING RING

Los Angeles un gruppo di adolescenti si dedica a un’attività piuttosto inconsueta. Irresistibilmente attratti dal glamour della vita delle star individuano le loro abitazioni e, in loro assenza, rubano tutti gli oggetti che, ai loro occhi, appaiono come status symbols. Prima di essere individuati dagli investigatori avevano già accumulato una refurtiva di più di tre milioni di dollari; tra le loro vittime ci sono stati (si tratta di fatti realmente accaduti) Paris Hilton e Orlando Bloom. Sofia Coppola al suo quinto lungometraggio conferma la propria attrazione, che possiamo ormai definire autoriale, per il mondo dell’adolescenza. Dopo le vergini suicide e la giovane Scarlett Johansson lost in una translation esistenziale. Dopo l’inedito e coloratissimo ritratto di Marie Antoinette e la struggente solitudine della Cloe di Somewhere questa volta il suo sguardo si sposta su un gruppo di 4 fanciulle della City of Angels che coinvolgono un loro coetaneo, arrivato da fuori, nelle loro imprese. Forse il motivo è da ricercarsi nell’ombra che papà Francis Ford ha gettato con la sua imponente presenza sulla sua fase di passaggio dall’infanzia all’età adulta. Sta di fatto che gli eventi che erano accaduti qualche anno fa e ai quali la regista non aveva prestato un particolare interesse divengono ora un film. Lo sguardo della sempre più adulta Sofia non condanna i propri protagonisti. Compie un’azione ancor più dolente e incisiva: li osserva e descrive con il senso di impotenza di chi ha ben chiare le cause dell’amoralità che li pervade e al contempo si chiede se e come si possa tornare alla ‘sana’ trasgressione che ha segnato in tutte le epoche la fase dell’adolescenza. Perché  ciò che più sconcerta, insieme alle loro dichiarazioni a posteriori desolatamente ‘vere’,  è il compulsivo bisogno di Nicki, Sam, Mark, Chloe e Rebecca non di opporsi al mondo degli adulti ma di conformarvisi attraverso quegli oggetti e quei gadget che ne identificano  a livello comunicativo il potere. È come se il potere ilusionistico dell’omologazione non avesse più dinanzi a sé alcun ostacolo nella propria marcia universale. Perché le vicende che qui si raccontano sono accadute negli Stati Uniti ma avrebbero potuto trovare cittadinanza pressoché ovunque. Da quando il desiderio di avere ha di gran lunga surclassato quello di essere, un virus sembra essersi annidato in ciò che resta delle coscienze. Sofia Coppola ce ne mostra una manifestazione utilizzando uno stile che sa, anche questa volta, adattare alla storia che ha deciso di raccontare. Abbandonati i tempi dilatati di Somewhere in The Bling Ring a dominare è il ritmo, quasi sempre incalzante e dettato dalla  musica, di una coazione a ripetere la cui meta finale è il vuoto pneumatico interiore. Rivestito però dalle migliori griffes.

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ANNI FELICI

Nell’anno del referendum sul divorzio, l’Italia di Daniele Luchetti è una famiglia romana in preda al fervore dei tempi tra aspirazioni artistiche d’avanguardia, comodità piccolo borghesi, istanze femministe e amore libero. Guido è un padre sui generis, pittore e scultore, elettosi rappresentante della nuova arte concettuale più per adesione alla moda del periodo che per un’autentica necessità artistica. Di giorno, nel suo laboratorio negli orti della Lungara, trasgredisce le convenzioni sociali modellando i corpi di ragazze accondiscendenti con i nuovi materiali imposti dall’avanguardia, di sera impartisce lezioni sul bello nell’arte dopo la rivoluzione concettuale ai due figli di dieci e cinque anni, Dario e Paolo. La moglie Serena, figlia benestante di solidi commercianti della piccola borghesia cittadina, è una donna semplice attraversata però da una profonda inquietudine che la porterà dall’amore devoto verso un marito libertino alla scoperta del femminismo come riscatto del sé e come esperienza di un sentimento amoroso diverso.
Quest’ultimo film di Luchetti aveva un titolo provvisorio, Storia mitica della mia famiglia capace di definire i margini di un’operazione biografica (storia della mia famiglia) trasfigurata dalla memoria di sentimenti sedimentati nel tempo (storia mitica). Nel corso della lavorazione, il gesto coraggioso della dichiarazione auto-biografica ha lasciato il passo a un titolo nostalgico, Anni felici, che suona come giudizio amaro per una storia famigliare contrastata che il regista, al tempo testimone bambino, avrebbe voluto cogliere in tutta la sua contradditoria vitalità.
In una delle prime inquadrature del film, affisso su di un muro, fa capolino un manifesto elettorale che recita così: “Le donne della famiglia Cervi dicono di NO”. Dichiarazione misteriosa se non fosse il 1974, anno del referendum abrogativo della legge che quattro anni prima aveva istituito in Italia il divorzio. A dire NO sul quel manifesto è l’autorevolezza delle donne di una tristemente famosa famiglia anti-fascista i cui uomini (i sette fratelli Cervi) furono fucilati dai fascisti nel ’43 (Irnes Cervi, moglie di Agostino, molto si spese per affermare i diritti delle donne). Questo piccolo dettaglio, sullo sfondo murale di un dialogo coniugale, definisce il contesto sociale della storia di una famiglia attraversata per quel che la riguarda dall’impeto dei tempi (divorzio, femminismo, arte concettuale, trasgressione matrimoniale, amore lesbico…), vissuto come di rimbalzo, attori involontari ed etero-diretti.
Gli Anni felici di Luchetti sono però anche gli “anni di piombo”, quelli – per rimanere nel ’74 – della strage a Piazzale della Loggia a Brescia (28 maggio), della bomba sull’Italicus (4 agosto) della crisi energetica e dell’austerità.  Sorprende un po’ che la Roma di Guido e Serena non risenta minimamente di quell’atmosfera, riportando invece una dimensione dinamica, una scena artistica vissuta ardentemente tra gallerie d’arte e triennali milanesi, molto colorata e trasgressiva, come voleva essere. Il motivo è presto detto: tutti gli eventi sono filtrati dalla memoria emotiva di un bambino di dieci anni, Dario (alter-ego del regista), figlio e testimone muto di quella stagione dalla quale ha voluto espungere il contesto politico per isolare quello famigliare e sociale (l’avvento del femminismo). Se volessimo considerare questo film come il terzo passaggio di un’ideale trilogia, vien facile dire che il racconto storico-politico si sia esaurito in Mio fratello è figlio unico, mentre quello sull’oggi da La nostra vita. Il terzo atto quindi si insinua in un’altra dimensione che non è più né storica né politica, ma potremmo dire emotiva e personale.
Ecco, allora che s’arriva a una novità, anche estetica, non indifferente per Luchetti. Sebbene Anni felici sia un film d’invenzione, la storia è quella della sua famiglia, ed il vero e il falso si intrecciano uniti dal filo rosso dei ricordi emozionali.
Ad avvalorare questa premessa è la scelta della voce-off: a “recitarla” è lo stesso Luchetti che impersona il personaggio di fantasia, il bambino Dario (suo alter-ego) che a distanza di anni racconta gli eventi del ’74. Ecco che subentra nel cinema di Luchetti la “prima persona” nella formula, già scandagliata in letteratura dell’auto-fiction, anticipata dal Caro diario di Nanni Moretti, suo amico e maestro.
Luchetti è un regista dalla vocazione narrativa tradizionale, eppure ha saputo dimostrare soprattutto negli ultimi film una certa curiosità verso altri linguaggi ed esperienze cinematografiche. Ad esempio, l’idea dei dialoghi fuori fuoco, sporchi e sovrapposti, vicina al “cinema del reale” di Garrone, hanno influenzato l’estetica meno convenzionale di Mio fratello è figlio unico e La nostra vita. L’avvento della prima persona, l’uso dei filmini famigliari (anche se qui ricostruiti) in super 8, il discorso legato al femminismo, a noi hanno fatto pensare alle esperienze dell’altro cinema italiano, documentario e di montaggio. Chissà de Lucchetti l’ha in qualche modo assorbita.
A parte i riferimenti, involontari o meno, Anni felici si pone come un film solidamente convenzionale (forse un po’ troppo) e saldamente narrativo, che molto s’appoggia sulla perfomance dei due attori protagonisti. Kim Rossi Stuart, com’è del suo metodo recitativo, trasforma in modo autoriale il personaggio nella somma delle sue complessità, dando spessore e corpo a una figura sulla carta fragile, tutta schiacciata da un’ossessione artistica fasulla e da un narcisismo quasi adolescenziale. Micaela Ramazzotti, istintiva e fisica, sembra affidarsi alla scrittura, un po’ come il suo personaggio, scoprendo poi una profondità emotiva e un’istanza di genere impreviste.
C’è però qualcosa che non torna in Anni felici, anche se tutto sembra essere al suo posto. Non è facile capire cosa. Forse il fatto che Luchetti non è riuscito a prendere, anche legittimamente, la giusta distanza. È troppo dentro per vedersi da fuori. Forse anche lui è vittima a posteriori di un narcisismo represso, tant’è che il film chiosa con l’affermazione urlata del proprio Io. Dei suoi ultimi tre film, questo è forse il più fragile ma certo comunque autentico e onesto, anche solo per aver avuto il coraggio di ri-affermare che per lui il personale è politico.

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STOLEN – RAPITI

Stolen – Rapiti (Stolen Lives) è un film di genere drammatico, giallo, thriller della durata di 91 min. diretto da Anders Anderson e interpretato da Josh Lucas, Jon Hamm, Jimmy Bennett, Rhona Mitra, James Van Der Beek, Jessica Chastain, Beth Grant, Rutanya Alda, Morena Baccarin, Christian Bender.

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RIDDICK – DOMINA L’OSCURITA’

Il ricercato Richard Riddick, che abbiamo già incontrato in Pitch Black e The Chronicles of Riddick, si ritrova su un pianeta brullo e popolato da bestie feroci, lontano da casa e alla mercé dei cacciatori di taglie dell’intera galassia. Il suo obiettivo è ritornare al pianeta Furya e a renderlo possibile, ma anche a mettere in pericolo la sua vita, sono due gruppi di mercenari atterrati proprio allo scopo di catturare Riddick, guidati l’uno dallo psicopatico Santana, l’altro da Johns, combattente intergalattico che ha con il ricercato un antico conto da saldare.
Ancora una volta quella di Riddick è la parabola dell’uomo solo contro un mondo spietato, impegnato a sopravvivere in un universo oscuro nel quale si muove con agilità dopo aver modificato chirurgicamente gli occhi, che ora possono contare su una sorta di visione a raggi infrarossi. Una metafora potente per i nostri tempi bui e la nostra epoca individualista che, nell’episodio iniziale della saga, si era tradotta in un B movie originale e divertente, anche grazie al modesto budget che spingeva il regista David Twohy ad “arrangiarsi” in modo creativo.
Con l’aumento di budget il secondo capitolo si era adagiato sui cliché sacrificando lo spirito irriverente e iconoclasta di Pitch Black al conformismo hollywoodiano. In questo terzo episodio Twohy cerca una difficile sintesi fra lo spirito del B movie originale, evidente nell’ironia con cui vengono descritti i personaggi, e la necessità commerciale di confezionare un blockbuster globalizzato. Il metro con cui Twohy sembra aver concepito questo Riddick è il gusto del quattordicenne cresciuto a videogame: ci sono le scazzottature con i mostri alieni, le armi da fuoco e da taglio gigantesche, le moto spaziali, le donne da calendario (una delle quali è una lesbica da “convertire”), il sangue che sgorga a fiotti.
Un universo preadolescenziale in cui Riddick si aggira esprimendosi per frasi fatte, rivolgendosi prevalentemente a se stesso e confrontandosi con creature delle quali sottolinea immancabilmente l’inferiorità, come fa ogni teenager arrabbiato col mondo. E’ un incrocio fra un supereroe e una divinità mitologica che sopravvive ad ogni traversia e quando è ferito si autoinfligge medicazioni alla Rambo. E poiché nell’episodio precedente si è fatto “cogliere alle spalle”, in questa puntata Riddick decide di ritrovare il suo istinto animale e la sua ferocia ferina: peccato che il finale, che non riveliamo, contraddica questa premessa e tradisca l’essenza autarchica del suo personaggio.
I cattivi, cui è dedicata buona parte della trama (curioso come Vin Diesel, che presta la sua fisicità imponente a Riddick ed è anche coproduttore della saga, sia assente da gran parte di questo episodio), sono una corte di miracoli di sprovveduti, a cominciare dal Santana che Jordi Mollà interpreta come un incrocio fra il Monnezza e Willy Coyote. Nella parte loro dedicata il film sconfina ampiamente nella parodia camp e si presta ad infinite citazioni (“Dì qualcosa di biblico su questi corpi”). Totalmente relegato alle fantasie onanistiche, infine, il personaggio di Dahl, la guerriera che “non fotte gli uomini perché non ce n’è uno che ne valga la pena”.

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