Archivio per 24 dicembre 2013

IN TRANCE

Simon, che lavora in una prestigiosa casa d’aste, si unisce a una banda criminale per trafugare un capolavoro di Goya. Durante il furto, però, viene colpito duramente alla testa e il trauma gli impedisce di ricordare dove ha nascosto il preziosissimo bottino. Poiché nemmeno le torture fisiche sortiscono alcun effetto, il capo della banda, Franck, decide di provare con l’ipnosi. Simon sceglie di farsi curare dall’affascinante dottoressa Elisabeth Lamb, ma più la donna si addentra nella mente dell’uomo più il mistero, anziché dipanarsi, s’infittisce.
Dopo la prova di resistenza fisica di 127 ore, Danny Boyle torna ad esplorare le alterazioni degli stati mentali, in un film-puzzle la cui maggior verità riguarda la straordinaria abilità che possediamo di mentire a noi stessi. Pur non risultando incomprensibile, In trance tira decisamente troppo la corda quando, complice il triangolo sentimentale, le versioni e le visioni della coscienza si moltiplicano, s’intrecciano, esuberano. La tensione c’è e, come in ogni film di Boyle, è costruita sul binomio impossibile nervi saldi/psiche esplosa, così come non mancano le immagini ricercate, colorate dal digitale e dal richiamo alla pittura. Ma l’eleganza è un’altra cosa. Non bastano gli interni di lusso e design, l’abito sartoriale di McAvoy né la bellezza superlativa di Rosario Dawson a spogliare il film di una patina di grossolanità che poco gli giova. È un problema di verosimiglianza, che concerne l’aspetto per quel che riguarda McAvoy e il comportamento, nel caso della Dawson (che regge invece bene il ruolo psicologico di protagonista assoluta del film, oltre che l’impegno fisico, ça va sans dire). Ed è un problema di misura, perché gli spunti d’interesse del film rimangono sotterranei, come sul fondo di una cornice da cui è stato asportato il dipinto e il film sembra inseguire esattamente e per tutto il tempo la chimera del dipinto, dimenticando l’importante. Come l’analogia tra la forza occulta della stregoneria evocata dal quadro di Goya, Streghe Nell’Aria, e la forza occulta, sempre femminile, di cui si serve l’ipnotista per vendicarsi del male subito e convertitsi da vittima (Lamb) in artefice del proprio interesse.
Boyle, dunque, si fa prendere dal gioco dei colpi di scena, dall’esercizio dell’art for art’s sake e spreca l’occasione del film di genere per consegnarcene uno di puro intrattenimento.

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PERCY JACKSON E GLI DEI DELL’OLIMPO – IL MARE DEI MOSTRI

Un anno è passato da quanto Percy Jackson ha scoperto di essere un semidio figlio di Poseidone e dimostrato a tutti di non aver rubato lui il fulmine di Zeus, nulla è più successo così al campo addestramento per semidei comincia a pensare di non essere il fenomeno che sembrava. Proprio a quel punto un toro meccanico sfonda la barriera magica che proteggeva il campo, un protezione generata da un albero nato su una bambina che si era sacrificata per il bene altrui. Per rimettere le cose a posto bisogna andare a recuperare il vello d’oro nel mare dei mostri, l’unico oggetto in grado di salvare albero, barriera e campo.
Il secondo film tratto dai libri di Rick Riordan rivede tutto il team creativo che aveva fatto esordire Percy Jackson al cinema. Appoggiandosi sempre ad un regista ed uno scrittore con esperienza nel cinema per bambini e ragazzi Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo: Il mare dei mostri, si distanzia molto più del precedente dalla matrice letteraria, ne rielabora gli elementi chiave attenuandone i tratti palesemente calcati sull’Odissea ed enfatizzandone la componente di commedia. Dunque se la saga cinematografica a cui Percy Jackson più si rifà (Harry Potter) con il procedere dei capitoli ha aumentato la parte seria e drammatica, le scelte della 20th Century Fox sembrano muoversi nella direzione opposta.
Questo secondo film appare decisamente più scanzonato, divertito e intento a prendere in giro e scatenare risate (innumerevoli le comparsate ad effetto e autoreferenziali come quella di Nathan Fillion) che a mettere in scena un racconto coinvolgente. Le tematiche sono le più consuete (una paternità non risolta, l’accettazione del diverso, il superamento dei propri limiti) mentre è sempre più presente e tangibile la contaminazione con la modernità.
Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo: il mare dei mostri infatti rimarca con ancora più forza la componente chiave del primo film, il fatto che le avventure del semidio strappato ad una vita normale si svolgano nel nostro mondo, con le nostre apparecchiature tecnologiche, i nostri luoghi geografici e via dicendo. Sono gli stilemi dell’urban fantasy (genere prettamente letterario a cui appartengono anche altri film tratti da libri visti recentemente come Beautiful Creatures o Shadowhunters e in un certo senso la saga di Twilight): trasfigurare la geografia reale, principalmente americana, in un mondo fantastico, immaginando l’esistenza di un altro ordine civile, legato a creature mitologiche (siano gli dei dell’Olimpo o i vampiri), che camminano accanto alle ignare persone comuni. I mondi paralleli dell’urban fantasy esistono assieme a quelli normali, solitamente ad un livello di coscienza superiore (non solo possono fare più cose e hanno una vita più avventurosa ma a differenza degli umani sono consci dell’esistenza di due mondi e non pensano ci sia solo il loro), e di volta in volta rappresentano per i protagonisti la presa di coscienza della loro vera natura e di un certo numero di responsabilità, dunque il passaggio all’età adulta.
Il vero problema del film però pare proprio il nuovo regista, Thor Freudenthal. Con un immaginario da serie televisiva anni ’90 a basso budget, un impianto realizzativo al di sotto del livello qualitativo auspicabile e decisamente una bassa abilità nel raccordare scene e momenti topici, il secondo film di Percy Jackson non riesce nemmeno ad essere piacevolmente banale come quello di Columbus ma arranca nel mettere insieme i momenti epici con quelli sentimentali con quelli drammatici e, cosa forse ancor più grave visto il genere, fonde male computer grafica, effetti pratici, trucco e protesi, creando così un mondo fantastico implausibile dai riferimenti eterogenei e mal amalgamati.

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