PARKLAND

Dallas, 1963. Il presidente Kennedy viene assassinato da un cecchino, ma Abraham Zapruder ha ripreso tutto con un 8mm amatoriale. Mentre si scatena la caccia al colpevole, i servizi segreti raggiungono Zapruder per mettere in salvo la testimonianza ultima su quanto accaduto. Intanto viene catturato Lee Harvey Oswald e accusato di aver sparato al presidente. Per il fratello Robert la situazione si fa sempre più delicata.
Suona quasi come un paradosso che l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, immortalato da un celeberrimo filmato, che ha restituito – o provato a restituire – la verità sul caso, richieda a più riprese nuove ricostruzioni fiction della vicenda. Una ferita sanguinante e destinata a non rimarginarsi mai, bensì a ripresentarsi sotto varie forme, come perenne revenant, spettro e monito per la fragilità della democrazia occidentale. L’operazione di Landesman, che torna sui fatti di Dallas concentrandosi sui momenti immediatamente successivi all’attentato, e in particolare sull’ospedale in cui transitano i corpi di JFK e Oswald, suscita ben più di una perplessità, per ragioni molteplici e diverse tra loro.
Artistiche prima di tutto, visto che, anziché scegliere un approccio documentaristico o in qualche modo inusuale – benché l’abuso di materiale sui Kennedy renda difficile il compito – Landesman predilige la via più breve, la strada più battuta e obsoleta. Quella della ricostruzione da biopic per la Tv del bestseller di Vincent Bugliosi “Reclaiming History: The Assassination of President John F. Kennedy”, senza deviare mai da un tracciato che si dipana secondo la più prevedibile delle progressioni. Avviene tutto ciò che è lecito ed atteso che avvenga, senza violare mai il protocollo; un film che la stessa commissione Warren avrebbe potuto girare, tanto le risposte sono scontate e calcolate (o forse trucchetti puerili, come le immagini dell’attentato viste attraverso le lenti degli occhiali di Zapruder, rappresentano una cifra stilistica?). E qui sta il secondo principale problema dell’opera, discutibile anche politicamente, per la dubbia opportunità di tornare sul tema e sterzare di nuovo sulla colpevolezza unica o quasi di Oswald (tutto si ferma narrativamente prima che il post-Zapruder abbia effetto) o di introdurre insulsi episodi collaterali, allestiti allo scopo di conferire personalità a personaggi secondari. Tra questi una quasi giustificazione della decisione della scorta del Presidente di non concedere l’autopsia del corpo in loco, nei fatti una delle pagine più sinistre e imperscrutabili dell’intera vicenda JFK. Si avverte un accenno timido in direzione di una verità rassicurante, quella incisa nel marmo a suo tempo dalla commissione Warren e sconfessata dal lavoro decennale delle migliori menti d’America.
A completare il naufragio tematico e stilistico una fedeltà pedissequa ma sterile alla mimica e alle abitudini dei personaggi realmente esistiti (un Giamatti schiavo del Metodo, uno Zac Efron non commentabile) e la tendenza a ritrarsi di fronte ai momenti clou, come i due omicidi Kennedy e Oswald; forse per non aggiungere immagini all’ingente quantitativo già presente, forse per evitare un confronto impietoso e tentare strade collaterali ma meno azzardate. Tutto contribuisce a incrementare la sensazione di un prodotto per la Tv promosso al grande schermo e, per ragioni ancor più imperscrutabili, ammesso in concorso alla 70.ma Mostra del Cinema di Venezia. Ogni parallelo possibile con JFK di Stone o Bobby di Estevez sarebbe ingeneroso quanto irragionevole.

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