Archivio per 17 dicembre 2013

SHADOWHUNTERS – LA CITTA’ DI OSSA

Clary Fray è una ragazza della Brooklyn contemporanea che vede ovunque simboli misteriosi e presenze inspiegabili. La madre non l’ha avvertita del suo imminente incontro con gli Shadowhunters, i cacciatori di demoni che popolano un mondo parallelo e con i quali Clary ha un legame ancestrale. Starà alla ragazza, accompagnata dall’amico nerd Simon, scoprire il proprio coinvolgimento nella battaglia contro il Male. E l’incontro con Jace, un affascinante Shadowhunter, darà un’ulteriore svolta alla sua esistenza.
Primo film dedicato alla saga letteraria firmata da Cassandra Clare, Shadowhunters – Città di ossa rientra a pieno titolo in un genere narrativo, e dunque anche cinematografico, a sé: il racconto di iniziazione giovanile che è anche un “viaggio dell’eroe” all’interno di un mondo popolato da creature solo parzialmente di fantasia poiché, come si dice in Shadowhunters, “tutte le favole sono vere”.
Esattamente come le fiabe (soprattutto quelle nere), Shadowhunters costituisce contemporaneamente un esorcismo delle paure giovanili e una lusinga dell’aspirazione all’onnipotenza per una generazione che, nella realtà, si sente oppressa da quelle che l’hanno preceduta. Infatti, come già nella saga di Harry Potter, anche qui gli adulti sono infidi e pronti ad abdicare alle proprie responsabilità di protezione e guida dei giovani, i quali dunque decidono di proteggersi da soli, spesso difendendosi proprio dai “grandi” preposti alla loro tutela. Shadowhunters riserva particolare attenzione all’inaffidabilità dei padri: senza scendere in dettagli, Clary scoprirà che tanto il genitore biologico quanto il patrigno nascondono parecchi segreti, e dovrà decidere se e quando dare loro credito.
Come nella saga di Twilight, anche in Shadowhunters c’è un triangolo amoroso, esacerbato da una scoperta scottante che ha a che fare con i legami famigliari di Clary: da una parte il “mondano” (cioè umano) Simon, innamorato da sempre della sua “migliore amica”, dall’altra il cacciatore Jace. Come in Twilight, uno dei pretendenti tiene ancorata Clary alle sue radici, l’altro la trascina verso il suo destino.
Il parallelo con la saga di Twilight si accentua grazie al casting, che vede Lily Collins (figlia del batterista e cantante Phil) nel ruolo della “ragazza qualunque” scelta per favorire l’identificazione delle spettatrici, e Jamie Campbell Bower, reduce sia daTwilight, dove era il volturo Caius, che da Harry Potter, dove era Gellert Grindelwald, nei panni del tenebroso Jace.
Il tono è stuzzicante ma mai esplicitamente sessuale, spaventoso ma sempre attento a non sconfinare nel divieto ai minori, con un’apertura a temi che riguardano i legami di sangue assai più perturbanti della presenza di streghe e vampiri.
Le scene di azione e gli effetti speciali, in mano al regista norvegese Harald Zwarth, seguono la falsariga della recente scuola europea che abbina la fiaba all’orrore (vedi Hansel e Gretel – Cacciatori di streghe del connazionale Tommy Wirkola) mantenendosi in equilibrio fra i confini riconoscibili e rassicuranti di New York e le passeggiate sull’orlo del baratro di universi atavici e tabù primordiali.
Anche il linguaggio si colloca a metà fra narrazione fantastica e cultura pop, con continui riferimenti all’attualità e all’immaginario collettivo che stemperano la tensione e colorano di autoironia una vicenda intenta a mettere alla prova la nostra capacità di sospensione dell’incredulità.
Shadowhunters fa inoltre parte del recente filone cinematografico dedicato all’empowerment femminile, concentrato soprattutto nei settori animazione (Ribelle) e teenage movie. La creazione di nuove eroine e la rivisitazione delle fiabe classiche in chiave postfemminista (vedi la Biancaneve di Tarsem Singh con protagonista proprio Lily Collins) insegnano alle ragazzine ad avere fiducia nei propri “poteri nascosti” e a diventare protagoniste della propria esistenza, senza aspettare il principe azzurro. Peccato per l’insistenza sul triangolo amoroso che certamente gratifica il lato romantico delle spettatrici, ma rende meno radicale la traiettoria cinematografica dell’emancipazione femminile.

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PAIN & GAIN – MUSCOLI E DENARO

Daniel Lugo è un trainer di fitness ossessionato dal conseguire il classico sogno americano. Riesce così a coinvolgere due amici, Doyle e Doorball nel portare a termine il rapimento di un facoltoso cliente della palestra. Lo scopo è quello di farsi trasferire i suoi averi. Le cose però non andranno per nulla per il verso sperato dal trio.
Michael Bay, lasciatisi i Transformers alle spalle può finalmente realizzare il sogno di una produzione con un budget decisamente meno imponente (anche se non propriamente low visti gli attori ingaggiati) che gli permetta di portare sullo schermo un dark comedy che affondi però le sue radici nella realtà. Perché sin dall’inizio (e anche nel corso del film) ci viene ricordato che gran parte di quello che vediamo succedere è purtroppo accaduto realmente. Il’purtroppo’ è dedicato in modo particolare all’idiozia che prevale nelle azioni dei tre compari condotti da un Mark Whalberg che conferma le sue doti di attore proprio nel rendere tangibile e quasi verificabile la massima di Albert Einstein: “Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana. Riguardo all’universo però ho ancora dei dubbi”.
In una Miami steroidea come i muscoli dei protagonisti (in proposito bisogna riconoscere a Dwayne Johnson “The Rock” un’ottima dose di autoironia) assistiamo ad un susseguirsi di goffaggini e dabbenaggini che avrebbero potuto trovare posto in una commedia demenziale. Quello da cui però Bay sembra volerci mettere in guardia è invece la possibilità (per chiunque sia accecato dalla convinzione di dover trasformare la propria vita sulla base del denaro) di divenire un criminale non più allo stato potenziale. Fin dalle prime scene veniamo messi nella posizione di chi può facilmente immaginare come andrà a finire. Proprio per questo ci viene chiesto non di parteggiare per i protagonisti ma di domandarci fino a dove la loro pericolosa insipienza li spingerà e quando verranno assicurati alla giustizia. Come le spie pasticcione di Burn after Reading dei Coen, Lugo, Doyle e Doorball si aggirano per il film costruendo un piano sotto al quale pongono essi stessi delle mine destinate a farlo esplodere. Se per i Coen tutto finiva per essere poi visto dall’alto (satellitare) dei cieli qui è invece la cronaca a ricordarci quale è stato l’esito finale della vicenda. La commedia a quel punto era finita. Rimaneva solo il lato dark.

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PARKLAND

Dallas, 1963. Il presidente Kennedy viene assassinato da un cecchino, ma Abraham Zapruder ha ripreso tutto con un 8mm amatoriale. Mentre si scatena la caccia al colpevole, i servizi segreti raggiungono Zapruder per mettere in salvo la testimonianza ultima su quanto accaduto. Intanto viene catturato Lee Harvey Oswald e accusato di aver sparato al presidente. Per il fratello Robert la situazione si fa sempre più delicata.
Suona quasi come un paradosso che l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, immortalato da un celeberrimo filmato, che ha restituito – o provato a restituire – la verità sul caso, richieda a più riprese nuove ricostruzioni fiction della vicenda. Una ferita sanguinante e destinata a non rimarginarsi mai, bensì a ripresentarsi sotto varie forme, come perenne revenant, spettro e monito per la fragilità della democrazia occidentale. L’operazione di Landesman, che torna sui fatti di Dallas concentrandosi sui momenti immediatamente successivi all’attentato, e in particolare sull’ospedale in cui transitano i corpi di JFK e Oswald, suscita ben più di una perplessità, per ragioni molteplici e diverse tra loro.
Artistiche prima di tutto, visto che, anziché scegliere un approccio documentaristico o in qualche modo inusuale – benché l’abuso di materiale sui Kennedy renda difficile il compito – Landesman predilige la via più breve, la strada più battuta e obsoleta. Quella della ricostruzione da biopic per la Tv del bestseller di Vincent Bugliosi “Reclaiming History: The Assassination of President John F. Kennedy”, senza deviare mai da un tracciato che si dipana secondo la più prevedibile delle progressioni. Avviene tutto ciò che è lecito ed atteso che avvenga, senza violare mai il protocollo; un film che la stessa commissione Warren avrebbe potuto girare, tanto le risposte sono scontate e calcolate (o forse trucchetti puerili, come le immagini dell’attentato viste attraverso le lenti degli occhiali di Zapruder, rappresentano una cifra stilistica?). E qui sta il secondo principale problema dell’opera, discutibile anche politicamente, per la dubbia opportunità di tornare sul tema e sterzare di nuovo sulla colpevolezza unica o quasi di Oswald (tutto si ferma narrativamente prima che il post-Zapruder abbia effetto) o di introdurre insulsi episodi collaterali, allestiti allo scopo di conferire personalità a personaggi secondari. Tra questi una quasi giustificazione della decisione della scorta del Presidente di non concedere l’autopsia del corpo in loco, nei fatti una delle pagine più sinistre e imperscrutabili dell’intera vicenda JFK. Si avverte un accenno timido in direzione di una verità rassicurante, quella incisa nel marmo a suo tempo dalla commissione Warren e sconfessata dal lavoro decennale delle migliori menti d’America.
A completare il naufragio tematico e stilistico una fedeltà pedissequa ma sterile alla mimica e alle abitudini dei personaggi realmente esistiti (un Giamatti schiavo del Metodo, uno Zac Efron non commentabile) e la tendenza a ritrarsi di fronte ai momenti clou, come i due omicidi Kennedy e Oswald; forse per non aggiungere immagini all’ingente quantitativo già presente, forse per evitare un confronto impietoso e tentare strade collaterali ma meno azzardate. Tutto contribuisce a incrementare la sensazione di un prodotto per la Tv promosso al grande schermo e, per ragioni ancor più imperscrutabili, ammesso in concorso alla 70.ma Mostra del Cinema di Venezia. Ogni parallelo possibile con JFK di Stone o Bobby di Estevez sarebbe ingeneroso quanto irragionevole.

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