Archivio per 10 dicembre 2013

ELYSIUM

Nella Los Angeles del 2154 l’umanità rimasta sulla Terra è un’unica grande classe operaia, che mescola criminali e lavoratori senza criterio, tutti tenuti a bada e dominati con pugno di ferro attraverso i robot da un’elite che da tempo è andata a vivere su una stazione orbitante intorno al pianeta chiamata Elysium. Su Elysium c’è la tecnologia per guarire da ogni malattia, c’è il verde, il benessere e il disinteresse per ciò che accade più in basso, sulla Terra, dove il resto dell’umanità lavora per mantenere la stazione.
Un giorno un operaio con precedenti penali ha un incidente nella catena di montaggio e viene esposto ad una quantità mortale di radiazioni. Gli rimangono più o meno 5 giorni di vita e l’unica tecnologia in grado di curarlo si trova su Elysium. Per arrivarci senza autorizzazione e senza essere abbattuto prima dell’atterraggio occorrerà fare accordi con i criminali.
Quella della divisione netta tra una piccola fetta di popolazione ricca e dotata di qualsiasi privilegio, che mantiene uno stile di vita spensierato sfruttando il lavoro della massa di poveri, è una delle distopie cinematografiche più frequenti, una visione iperbolica del nostro presente proiettata in un futuro deteriore che ha contaminato tutto il cinema fin da Metropolis. E che proprio ad un regista come Neil Blomkamp sia stato affidato un film con una premessa così consueta è la pecca produttiva più grande del film. Nelle mani dell’autore di District 9 la storia è naturalmente sbilanciata verso il mondo dei poveri, ritratto con ammirabile dettaglio e mania per la creazione di meccanismi vessatori, scenari disperati e incubi operai, prelevati da un immaginario che poco ha a che vedere con la fantascienza ma pesca a piene mani dal cinema più realistico e sociale.
Purtroppo però Elysium nel portare avanti la sua storia di rivoluzione operaia e riconquista della giustizia a dispetto del progresso tecnologico non riesce a trovare il furore del film precedente, nè quell’equilibrio tra finzione e metafora del reale che avrebbe consentito di portare un passo più avanti l’usuale sottotesto sociale del cinema distopico. Solo le astronavi colme di disperati in cerca di salvezza che vengono abbattutte senza pietà prima di arrivare su Elysium, riescono ad essere un’immagine dotata della forza e dell’intelligenza che riconosciamo al regista sudafricano.
Semmai è più interessante la visione che Blomkamp ha della Los Angeles del 2154, totalmente bilingue (inglese-spagnolo), quasi uguale a quella contemporanea nelle tecnologie e nella moda (veicoli volanti a parte), colma di rifiuti come in Wall-E e non lontana per certi versi dalla fantascienza anni ’60, quella dei robot ubiqui che sembrano pupazzoni inerti da fiera di paese. Andando a girare il suo antifuturo nelle vere baraccopoli del Messico, Elysium svela la vicinanza con l’oggi e come la parte più cara all’autore non sia la lotta per la conquista del benessere che i ricchi tengono per sè (ben rappresentato dalla possibilità di guarire da ogni malattia) o lo scontro fisico con i luogotenenti di Elysium presenti sulla Terra (che appare molto forzato nella sua lunghezza) ma sia invece lo sforzo disperato costituito dal sopravvivere e crescere nei ghetti o nelle periferie del pianeta, evitando come possibile l’ubiqua criminalità e inseguendo la vaga speranza di un domani migliore. L’epica di un futuro in cui tutto è andato male che è visivamente identico all’oggi.

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KICK – ASS 2

Mentre Hit-Girl ha promesso al suo padrino di abbandonare il pericolo e l’avventura e si ritrova alle prese con un altro tipo di delinquenza, quella delle bullette adolescenti a scuola, Kick-Ass è felice di aver trovato una squadra di supereroi a cui unirsi, quella del Colonnello Stars and Stripes. Ma l’uccisione di suo padre da parte di David e Mindy ha acceso in Red Mist il fuoco della vendetta. Agghindato da Mother Fucker e circondato da un manipolo di mercenari senza pietà, comincia con l’assassinare il padre di David per poi dirigere il suo proposito verso Kick-Ass stesso.
In occasione del sequel, la parola, tanto in sede di sceneggiatura che di regia, passa dalle mani di Matthew Vaughn a quelle di Jeff Wadlow, ma la formula è pressoché immodificata e ripropone le medesime questioni.
Il concept prevede che, a far notizia e a fare il film, sia la sfacciataggine pop e patinata con cui si racconta di un nerd simpaticamente spiantato e di un’undicenne, oggi quattordicenne, dal viso ancora dolce e rotondo che, indossata la parrucca viola, si trasforma in una spietata seminatrice di morte. Eppure non è la violenza in sé a disturbare e non è nemmeno il fatto che sia deputata spesso e volentieri al personaggio di Chloe Moretz. Quello che rende spesso poco confortevole la visione del film di Wadlow è una messa in scena nella quale la spensieratezza dei colori saturi e dei movimenti di macchina estetizzanti deresponsabilizza una sequela di gesti truci mai veramente sublimati dall’iperrealismo, lontani da ogni leggerezza fumettistica (per non dire da qualsiasi eversività tarantiniana), ma soprattutto disancorata da qualsiasi abilità o pur minimo tentativo narrativo.
La violenza di Kick-Ass 2, cioè, è una violenza commerciale, pubblicitaria, studiata a tavolino per sdoganare i bassi istinti senza offrire alcuna catarsi, ma ciò che più stordisce è la noia di un racconto appiattito su un livello zero di ricerca creativa, che non calzerebbe su misura ad un episodio televisivo e viene qui propinato per il tempo di un lungometraggio.
Le cose non vanno meglio sul fronte puramente ideologico, con l’eliminazione letterale dei padri e la generazione dei figli impegnata a rispondere al male con il male o con una lassista alzata di spalle. Che infine si decida di sfrecciare via, verso il domani, o di rimanere senza maschera e abbracciare la stanca retorica dell’eroe nella vita di tutti i giorni, nessuna conclusione potrà mai riparare al danno di partenza, ovvero all’aver mancato di inseguire, nel farsi dell’impresa, un sufficiente (nemmeno “super”) motivo di interesse.

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