Archivio per novembre 2013

TURBO

Turbo non è come le altre lumache. Non ha paura del bambino della casa nel cui giardino vive con la comunità di suoi pari, non è soddisfatto del lavoro alla piantagione di pomodori e non ama la filosofia di fuga da ogni problema che propugnano le altre lumache, lui sogna le corse automobilistiche, la velocità e il brivido della conquista dei sogni più sfrenati, come gli insegna il suo idolo: il pilota Guy Gagné.
Un giorno un incidente lo avvicinerà ai suoi sogni. Finito sul cofano di una macchina da corsa sarà risucchiato nel motore e immerso nella Nitro iniettata per fare da propulsore. Da quel momento Turbo diventa l’unica lumaca al mondo in grado di muoversi alla velocità di una macchina da corsa.
Film come Turbo alimentano la storia della Dreamworks come una di continui inseguimenti e di complessi d’inferiorità. Se lo studio d’animazione guidato da Jeffrey Katzenberg è stato capace di grandi colpi e ottime idee come Kung fu panda, I Croods e Dragon Trainer, è anche indubbio che molto spesso si sia rifugiato in film come Turbo, che sembrano guardare con ammirazione le trovate della rivale Pixar.
La storia della lumaca che non voleva essere come le altre, che insegue un sogno apparentemente inconciliabile con la propria natura, che ha una figura di riferimento in grado di alimentare la propria aspirazione e che finisce per far parte di quell’ambiente cui aspirava nella più paradossale delle maniere, ricorda molto da vicino la parabola di Ratatouille senza averne però la potenza e la forza gentilmente eversiva, mentre alcune trovate (il bambino malvagio poi punito, il ritrovarsi soli davanti a un ristorante) ricordano quelle di Toy Story.
In anni in cui il cinema d’animazione è cresciuto fino a tracimare dai confini dorati in cui l’aveva rinchiuso il monopolio Disney, per conquistare più pubblici, più riconoscimenti e più significati, Turbo è un atto di pigrizia, un cartone pensato per essere canonico e non stupire (caratteristiche che potrebbero tuttavia dargli il successo al botteghino), immaginato per piacere al pubblico più infantile senza fare lo sforzo di soddisfare anche le domande e i bisogni che questo non è in grado di esprimere e ripiegato su un immaginario molto banale, ovvero quella tipica traduzione che i cartoni per l’infanzia fanno delle dinamiche del mondo umano nella “società” dei personaggi usati, in questo caso la società delle lumache descritta secondo i canoni della nostra.
Fermo restando che il gradimento da parte del pubblico d’elezione di questo tipo di cinema, i bambini, segue spesso strade che Turbo batte con cognizione di causa e proprietà di linguaggio (non stupire in nessuna maniera è una di queste), rimane il fatto che avendo ormai scoperto che i cartoni, pur mantenendo il loro potenziale d’intrattenimento, possono lasciar passare in maniera sottile idee e valori più raffinati e complessi di quelli di una volta, è difficile tornare indietro e guardare con la medesima benevolenza operazioni più semplicistiche e vecchio stampo.

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FRIGHT NIGHT 2

Se quel per la tv del precedente Fright Night del 2011. Quando il liceale Charlie decide di frequentare un programma di studio all’estero con l’amico “Evil” Ed, ossessionato dall’horror e l’ex-fidanzata Amy, in Romania, ben presto scopre che la loro giovane e attraente professoressa Gerri (Jaime Murray) è un vampiro vero. Peccato che nessuno gli crede. In realtà, Evil Ed lo trova divertente e tutto questo alimenta la sua ossessione per i vampiri. Quando Gerri trasforma Ed, Charlie chiede aiuto a Peter Vincent, il famigerato cacciatore di vampiri (beh, ne interpreta uno in TV) che è in Romania per le riprese del suo show “Fright Night”, per insegnargli a uccidere Gerri prima che catturi Amy, il cui sangue curerà Gerri dal trascorrere l’eternità come un vampiro.  La DreamWorks ha venduto i diritti della franchise, che sono stati comprati da un piccolo studio, che ha intenzione di produrre altri film, possibilmente creando una franchise simile a Piccoli brividi. Le riprese si terranno in Romania.

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ALEX CROSS

Alex Cross è un detective e profiler della polizia di Detroit. A seguito del ritrovamento del corpo orribilmente mutilato di una donna viene messo a capo delle indagini che dovrebbero portare all’arresto di un pericoloso serial killer. In squadra col suo partner e amico Tommy Kane e la neo collega Monica Ashe i tre si mettono sulle tracce dell’assassino che sta puntando a Giles Mercier, proprietario di una multinazionale di Detroit. Non ci vorrà molto perché per Cross e Kane la caccia all’uomo si trasformi in un’operazione che va oltre l’ambito professionale.
Non è la prima volta che la creatura letteraria di James Patterson, il detective e psicologo Alex Cross, compare sul grande schermo. Nelle due occasioni precedenti (Nella morsa del ragnoIl collezionista) a ricoprire il ruolo era stato chiamato Morgan Freeman che ora non ha più l’età adatta. Il testimone è passato a Tyler Perry, attore, regista e produttore da noi scarsamente conosciuto e noto in particolare negli Usa per aver diretto alcuni film in cui è protagonista un’anziana e simpatica donna di nome Madea. Il problema in questo caso non è però causato da un attore più noto per il suo coté legato alla commedia quanto piuttosto dalla mancata adesione della regia al testo. Si ha l’impressione che ci sia alle spalle un romanzo ricco di osservazioni di carattere psicologico che nel film finiscono con il diluirsi in scene che vogliono ‘spiegare’ quanto Alex ami la famiglia, quanto Tommy e Monica siano legati ecc. Sono tutte situazioni in cui Rob Cohen (Fast and Furious, XXX, La mummia – La tomba dell’imperatore dragone ) si trova decisamente a disagio. Riprende quota nelle scene d’azione come quella che segna quasi l’inizio della storia con il combattimento clandestino purtroppo seguita da poche altre. Sembra di trovarsi di fronte a un episodio dilatato oltre il necessario di una serie televisiva non di primissimo ordine, di cui si può prevedere il finale e di cui non ci è stato dato il tempo per affezionarci ai protagonisti. Tutto scorre davanti ai nostri occhi e forse, alla fine l’unico personaggio che ci resta in mente  ancora una volta (almeno fisicamente) è ‘il cattivo’. Può bastare?

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TO THE WONDER

Neil e Marina si innamorano a Parigi di un amore grande e galoppante come le maree di Mont Saint Michel. La forza di attrazione li conduce verso ‘la meraviglia’ e i campi sconfinati dell’Oklahoma. Madre di una bambina di dieci anni, Marina cerca in Neil riparo e sicurezza. Ispettore ambientale operativo sul territorio, Neil ospita l’amore di Marina senza decidersi a realizzarlo. Molti abbracci dopo, col permesso di soggiorno scade l’intensità del loro sentimento: Marina torna in Europa, Neil ritorna a una relazione passata. Alla maniera della marea, il loro amore è in perpetuo movimento e una mattina risale e avanza verso una nuova meraviglia, verso gli States e verso una casa finalmente da arredare e da abitare. Li accoglie e li ascolta Padre Quintana, alla ricerca del cuore dietro le parole sempre deludenti dei dogmi. Davanti alla natura e al suo spettacolo, scenderanno nelle loro solitudini per scoprire, nella gioia e nel dolore, i termini del loro richiamo. Il cinema di Terrence Malick fa da sempre quel che fa la natura: colmarci di meraviglia. To the Wonder, come The Tree of Life prima di lui, parla alla nostra facoltà di gioia e di stupefazione, al senso del mistero che circonda il nostro essere e la nostra vita, al senso della bellezza e a quello del dolore. Appartato e radicale, Malick filma l’amore dell’uomo e lo fa risuonare sulla limpida voce della natura, senza valutazioni etiche dei comportamenti, delle situazioni, dei personaggi. To the Wonder rappresenta un conflitto, lo scontro-incontro fra uomo e donna, madre e figlia, uomo e Dio, con immagini attraversate incessantemente dalle voci fuori campo dei protagonisti, veri e propri flussi di coscienza declinati nella lingua di Ben Affleck, Olga Kurylenko, Javier Bardem, Rachel McAdams e Romina Mondello. Se nell’America scoperta da Malick (The New World), John Smith cercava il paradiso perduto, Neil, Marina e Padre Quintana vagheggiano una quiete contro lo stato di guerra dell’esistenza. Costruiscono e demoliscono teorie, scartano idee, allestiscono vite, spostano sentimenti verso il cielo o verso la terra, consapevoli che l’amore è l’unica salvezza possibile per l’uomo. Un amore non sempre afferrato, accolto, accordato. Dopo il cantico dell’esistente, di cui To the Wonder recupera e ‘riespone’ immagini e sublime, l’autore contiene il gigantismo e dirige l’uomo e la sua più nobile produzione con una libertà espressiva che non ha paura di camminare sulle sabbie mobili della baia di Mont Saint Michel. Luogo ideale e geografico dove le maree come le azioni sentimentali sono continuamente rinascenti. To the Wonder è una rappresentazione organica della realtà del sentimento, colta nella sua esaltazione e nella sua degenerazione, nella magnificazione e nell’avvelenamento da concentrazioni di cadmio e ‘ruggine’. Terra e cuore usciti all’amore e poi morti in esperimenti sbagliati. Muovendosi tra mistero esterno e indagine interiore, To the Wonder ha una bellezza indecifrabile e spietata che invita lo spettatore ad abitare i luoghi del creato, a infilare un’altra percezione, superare le coordinate narrative e riconoscere “cos’è quest’amore che ci ama”.

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WOLVERINE – L’IMMORTALE

Dopo gli eventi di X-Men – Conflitto finale Logan si è ritirato sui monti, ossessionato nei sogni dallo spettro di Jean Grey. A stanarlo è una mutante giapponese, inviata per trovarlo e portarlo a Tokyo dove un morente magnate della tecnologia vuole vederlo prima di esalare l’ultimo respiro. Si tratta di un militare giapponese che quando Logan lo salvò dall’atomica di Nagasaki ne scoprì il potere rigenerante e che ora intende fargli una proposta: l’immortalità in cambio di una vita normale.
Se il primo spin-off dedicato a Wolverine aveva puntato tutto su un concentrato d’azione e fisicità, cioè sulla storia di come ad un certo punto del suo oscuro passato il corpo di carne e adamantio dell’x-man sia diventato tale, questo secondo punta sulla sua anima e sul suo potere originale, quello che il gene mutante gli ha donato, ovvero il fattore rigenerante che rimargina le ferite, cura ogni male, previene l’insorgere delle rughe e impedisce di morire.
Dunque là dove la troupe capitanata da Gavin Hood aveva puntato sulla forza, quella al servizio di James Mangold punta sullo struggimento, forse sulla carta la chiave migliore per capire il personaggio di un uomo più vicino allo stadio animale che a quello dei sapiens, innamorato senza speranza del suo opposto, una donna dai modi angelici e dal cuore impegnato che è stato costretto ad uccidere (in X-Men – Conflitto finale).
Lontano dal branco Wolverine diventa sempre più Logan, si risveglia di continuo da incubi che paiono sogni idilliaci in cui la sua amatissima Jean lo ossessiona rinfacciandogli con grazia di averla uccisa e sembra voler andare a capire le origini di una vita violenta. Purtroppo questa è solo la prima parte del film, una serie di spunti che Wolverine – L’immortale lascia cadere uno dopo l’altro al proseguire della storia, sostituiti da un’azione né carne né pesce, mai audace perché attenta a non mostrare sangue per non perdere il divieto solo ai minori di 13 anni e mai davvero romantica, come la premessa lasciava intuire, ma anzi spesso derivativa (l’autochirurgia e il tema dell’anziano magnate in cerca di giovinezza ricordano Prometheus) grossolana (nemmeno l’idea di levargli temporaneamente il fattore rigenerante è sfruttata a fondo), spaccona e priva di gusto.
La pecca più grossa di questo adattamento del ciclo di storie ambientate in Giappone scritte e disegnate da Chris Claremont e Frank Miller è infatti la mancanza di scelte nette e decisioni audaci. Wolverine – L’immortale manca di polso, sembra voler essere innocuo e generico, buono per tutti e quindi speciale per nessuno, addirittura rifiuta pure di ricalcare lo stile visivo dei fumetti d’origine. In questa maniera la scelta del Giappone come location diventa una come un’altra, foriera solo di luoghi comuni (la sequenza sul bullet train suonerebbe stonata anche in una parodia) e non di quell’unione tra suggestioni pittoriche differenti. Pure il grande attacco finale nel villaggio, che sembra cercare geometrie da wuxia-pan attraverso un groviglio di cavi o anche solo un confronto filmico potenzialmente impressionante tra il corpo pesante e gigantesco (quindi occidentale per definizione) di Jackman e i mille fisici esili e scattanti dei ninja (orientali per definizione), si risolve in una sequenza incolore.
Solo la tangibile determinazione con cui Hugh Jackman veste i panni del protagonista (per la quarta volta), la profonda comprensione del personaggio e la caparbietà con la quale piega qualsiasi usuale banalità gli venga sottoposta fino a trovare anche solo una scintilla di coerenza, mantengono in piedi un film che sulle spalle di chiunque altro sarebbe crollato dopo mezz’ora.

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LA NOTTE DEL GIUDIZIO

Stati Uniti, 2022. La situazione socio-economica è ottimale, con un indice di disoccupazione ai minimi storici e una criminalità quasi azzerata. C’è però un prezzo da pagare per questa pace sociale: una notte all’anno è lasciato libero sfogo agli istinti violenti e tutto è permesso, qualunque crimine. Perciò, quelli che possono si asserragliano dentro case perfettamente protette ed equipaggiate, aspettando che passi. James Sandin si occupa di sistemi di sicurezza ed è al top di una categoria molto richiesta, in particolare in previsione di quella notte. Come gli altri anni, intende passare al sicuro la nottata con la famiglia, dopo aver messo in sicurezza i suoi clienti. Tutto è perfetto come al solito, ma Henry, il fidanzato della figlia diciottenne Zoey, resta di nascosto nella casa per incontrarsi con lei e parlare con James, che non vede di buon occhio la loro relazione. Inoltre, Charlie, il figlio piccolo, vede, dai monitor di controllo, un uomo di colore che chiede disperatamente aiuto poco fuori casa. È braccato e vuole un posto in cui nascondersi. Senza pensarci due volte, Charlie disattiva il sistema d’allarme e lo fa entrare. Due elementi di disturbo che sconvolgono la sicurezza del fortino della famiglia Sandin. Una delle conseguenze è che un gruppo di persone armate di tutto punto chiede la restituzione della sua vittima sacrificale altrimenti sarà la guerra. È solo l’inizio dei guai e la notte è ancora lunga.
La situazione di partenza è di quelle forti, azzeccate, semplici da capire e perciò maggiormente efficaci: il potere catartico della violenza usato per sanificare una nazione dai suoi istinti bestiali. Da un punto di vista sociologico è un punto di vista estremo e poco dimostrabile, ma narrativamente funziona alla perfezione, come funzionava la fredda furia vendicatrice di Charles Bronson in Il giustiziere della notte, di cui questo film è un’evoluzione fantahorror. Non casualmente, a creare problemi è il senso umanitario che improvvisamente emerge nella persona più giovane, quella con la coscienza meno anestetizzata.
Come nei vecchi cartoni animati di Ralph il lupo (parente stretto di Willy il coyote) con il cagnone da pastore, la violenza è strettamente legata a un’ideale timbratura del cartellino – dal tramonto all’alba – e perciò, in questo contesto realistico, ancora più disumana. Forse è eccessivo cercare significati socio-politici in un film di consumo come questo, ma l’horror è sempre stato un formidabile terreno per le metafore: il ritratto di una società paranoica, violenta, senza alcun ideale che possa redimerla, appare molto rispondente alla crisi che stiamo vivendo. DeMonaco riesce a far percolare nella storia quel tanto di allegoria che basta a darle un senso, ma punta soprattutto a creare un buon meccanismo di tensione, lasciando al minimo necessario la caratterizzazione psicologica e permettendo, nella seconda parte del film, che un certo conformismo morale prenda il sopravvento, forse per creare un meccanismo di identificazione e di riscatto morale. Il percorso motivazionale dei protagonisti è infatti dato per scontato, non è giustificato se non da generici giochi di sguardi e sensi di colpa. Mancano il coraggio di una maggiore cattiveria e la volontà di una denuncia più credibile e sferzante. E manca soprattutto il colpo d’ala che riscatti la storia dalla sua prevedibilità, anche se la conclusione non è peregrina e lascia intatto il carico di tensione. L’adrenalina comunque scorre a fiumi e lo spettacolo non manca, catarsi compresa. Come i morti viventi di George A. Romero, le persone comuni diventano il “mostro”, in rivolta contro i loro simili. Ma il fatto che le vittime predilette siano i senzatetto, i poveracci di colore, evidenzia come la lotta di classe, nella società odierna, sia soprattutto tra ricchi e poveri. Il film non se ne fa carico se non in termini sfumati e poco impegnativi, ma anche solo esponendo la situazione determina una significativa presa di coscienza.
Il vero tema è l’assedio, con la conseguente difesa della casa, della famiglia, in qualche modo della giustizia, come in certi classici del western e dell’horror, da Un dollaro d’onore a Cane di paglia, o, appunto, La notte dei morti viventi. Non a caso DeMonaco (oltre al modesto horror Skinwalkers – La notte della luna rossa) ha scritto Assault on Precinct 13, il remake di Distretto 13 – Le brigate della morte, uno dei capolavori di questo sottogenere (l’originale, non il remake). Nel cast spiccano per competenza e dedizione Ethan Hawke e Lena Headey.

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THE LAST EXORCISM – LIBERACI DAL MALE

La giovane Nell è sopravvissuta ai fatti raccontati nel film precedente, L’ultimo esorcismo, ma è comprensibilmente traumatizzata. Dopo un ricovero in ospedale, viene accolta alla Devereux Hall, a New Orleans, una sorta di rifugio per ragazze problematiche a cura del dottor Frank Merle. Questi le assicura che nessuno è sopravvissuto oltre a lei, ma Nell nega: anche il demone Abalam ce l’ha fatta. Con il passare dei mesi e delle cure, Nell si convince però che Abalam era solo il frutto della sua immaginazione. Fa amicizia con le altre ragazze di Devereux Hall e sviluppa una simpatia per Chris, un collega del posto di lavoro che le è stato trovato per integrare il suo cammino verso la normalità. Però la quiete è di breve durata e i fantasmi del passato tornano a turbare la povera Nell. E non solo lei.
Come già [Rec] La Genesi (e prima ancora, se vogliamo, Blair Witch 2 – Il libro segreto delle streghe), anche questo sequel abbandona, e lo fa sin dall’inizio, il formato del found footage per un approccio più tradizionale. Senza l’estetica del reality horror e, soprattutto, senza l’originale punto di vista dubitativo e decostruttivo del primo film, però, questo diventa uno dei tanti esorcistici, costruito con cura e una certa abilità, ma carente in “diversità”. Ogni ambiguità scompare e tutto torna nella normalità degli stilemi del genere, compresa la classica situazione che vede la protagonista sempre più avvolta in quella che sembra una cospirazione globale, dove dietro ogni persona può nascondersi il Maligno. Quello che manca totalmente, rispetto alla gran parte dei film esorcistici, è il ruolo della Chiesa quale riequilibratrice delle forze in gioco: qui non ci sono preti a supportare la lotta contro il diavolo e l’ingresso in una chiesa si rivela del tutto fallimentare per Nell. Si amplifica così il senso di solitudine della protagonista che cerca ovunque aiuto, senza avere la certezza di trovarlo davvero. La Chiesa, come istituzione, è sostituita da improbabili sette che mescolano voodoo e tribalismo. La tensione sessuale che si accompagna alla vicinanza dello spirito diabolico e turba la virginale Nell, di per sé piena di problemi con l’altro sesso, è appena accennata e sarebbe stato invece uno degli elementi più interessanti da esplorare.
Falsi e veri spaventi, spesso realizzati con la tattica della sorpresa sonora (classica, nella sua incongruità narrativa, la scena del cane che sbuca abbaiando all’improvviso), vengono usati copiosamente per mantenere alta la tensione mentre, secondo lo stile dei film esorcistici, la minaccia si costruisce con una lentezza tale da scontentare gli impazienti. La prevedibilità, difetto tipico degli horror di routine, non molla la sua presa sino alla conclusione del film, che però è condotto con un buon piglio e cerca di trarre il massimo, per suspense e intrattenimento, da una sceneggiatura non proprio ispirata. I difetti narrativi risiedono anche nello scarso approfondimento dei personaggi che attorniano Nell, lasciati nella genericità e nell’indeterminatezza: l’amica Gwen, che si presume abbia un ruolo importante nella vicenda umana di Nell, si limita a occhiate oblique e risatine, mentre il dottor Merle è così appiattito sullo stereotipo dello scienziato incredulo di fronte al soprannaturale da risultare privo di credibilità.
Ashley Bell – viso strano, molto espressivo – è l’unico significativo punto di contatto tra il seguito e l’originale ed è anche il punto di forza del film, capace com’è di rendere la fragilità e la forza del personaggio di Nell, la sua voglia di vivere e la sua paura di farlo. Proprio l’interesse che, con la sua interpretazione, riesce a suscitare negli spettatori per la sorte del suo personaggio fa sì che il film – co-prodotto da Eli Roth – non perda mai la sua presa, nonostante i luoghi comuni e i punti morti.

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LA CAMERA DEI MORTI

Una notte di dicembre, a Dunkerque, due tecnici informatici disoccupati travolgono un uomo comparso dal nulla, uccidendolo. L’uomo portava con sé una borsa con due milioni di euro e i due decidono di tenersi i soldi, sbarazzandosi del cadavere. Il giorno dopo, in un magazzino non poco distante dall’incidente, la polizia rinviene il cadavere di Melody, una ragazza cieca tenuta in ostaggio. Quella stessa sera, un’altra bambina viene rapita ma questa volta si tratta di una ragazzina diabetica. Alla stazione della polizia comincia il conto alla rovescia per ritrovarla prima che sia troppo tardi: accanto altenente Moreno c’è Lucie (Mélanie Laurent), una giovane sergente di 26 anni alla sua prima indagine.

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FACCIAMOLA FINITA

Il canadese Jay Baruchel si reca a Los Angeles, città che non ama, per trascorrere un weekend in compagnia dell’amico di vecchia data Seth Rogen. Verso sera, Seth lo trascina ad una festa piena di celebrità a casa di James Franco, ma ecco che accade l’impensabile e si scatena l’Apocalisse. Le colline di L.A. vanno a fuoco, la popolazione viene risucchiata in massa nelle viscere della terra e i pochi sopravvissuti, barricati nella villa di Franco, devono cercare di capire come dividersi le riserve di cibo e riscattarsi da vizi e crimini di una vita, per poter aspirare alla salvezza eterna.
La capacità e la versatilità di una generazione come quella che qui si mette in scena facendo sfoggio di autoironia e vanità insieme, è cosa rara e ammirabile. Attori, sceneggiatori e (soprattutto) produttori dei progetti degli amici ma non solo, personaggi come Seth Rogen e Evan Goldberg, – che con  Facciamola finita intraprendono una nuova carriera ancora, quella di registi – non mancano certo di consapevolezza del proprio valore e del proprio potere. Lo dimostra la scelta niente meno che della fine del mondo come cornice di questo divertissement, summa e punto di arrivo di una serie di esperienze seminate per strada.
Rogen e Golberg sviluppano, infatti, sollecitati dal successo in rete, un cortometraggio di Jason Stone del 2007 (Jay and Seth Versus the Apocalypse), chiamano quindi a raccolta i compagni di set di Suxbad – 3 Menti sopra il pelo e Strafumati e si divertono a proporre delle versioni eccessive e parodistiche di loro stessi, dove la chiave estetica dell’horror gioca a corrispondere in parte con l’abiezione morale di cui si accusano per il bene ultimo della commedia le stars hollywoodiane coinvolte, e in parte con lo spirito nerd che contraddistingue il clan di Apatow e il suo pubblico.
L’idea non oltepassa lo status di trovata, ma è innegabile l’efficacia del lavoro di scrittura, contenuto per scelta ed esercizio di stile in un solo ambiente o quasi, ed è impossibile non ridere in più di un’occasione. Che sia la deriva di Michael Cera o l’esorcismo di Jonah Hill, la presa in giro della passione di James Franco per l’arte o il suo ripostiglio di memorabilia: non si può non farsi contagiare dallo spirito dell’operazione, almeno a tratti (più scontati sono, invece, la fine di Rihanna e Paul Rudd e il ruolo di Emma Watson).
Non cercate, però, la commedia veramente dissacrante, né lo spunto intelligente: l’ordine resta, da cima a fondo, quello di non prendersi mai sul serio.

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LA MALEDIZIONE DI CHUCKY

La bambola assassina torna ancora piu’ spietata e perversa che mai!!!!!!

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