L’UOMO D’ACCIAIO

Il pianeta Krypton, esaurite le risorse naturali, è condannato a implodere. A pochi giorni dalla fine e nei giorni del colpo di stato del generale Zod, nasce un bambino destinato a cambiare la vita di un pianeta più giovane e lontano. Figlio di Jor-El, scienziato e luminare di Krypton, Kal viene imbarcato su una navicella e lanciato nello spazio con il codice genetico del suo popolo. Atterrato in Kansas e sopravvissuto ai genitori, Kal viene recuperato dai coniugi Kent, che lo educano con amore e senso etico. Molto presto però la natura aliena e formidabile di Clark, il suo nome terreno, prende il sopravvento emarginandolo dal mondo. Diventato uomo dentro al corpo di un dio, lascia la casa paterna in cerca delle proprie origini. Il ritrovamento di una nave spaziale, precipitata sulla terra milioni di anni prima, è la risposta alle domande disattese di Clark, a cui l’ologramma del padre biologico rivela identità e genesi. Unico della sua progenie, Clark incarna la ‘speranza’ di un domani migliore per il pianeta che lo ha cresciuto e che adesso vuole servire facendo il bene. Infilata la tuta rosso-blu di Superman, Clark dovrà vedersela con un fantasma del passato che torna a chiedere il conto.
Come Batman, suo compagno di nuvole e (super)avventure, Superman ritorna al cinema ma diversamente da lui non convince quasi mai. Gli effetti speciali e lo stupore visivo da soli non cancellano una mancanza di affezione per il fumetto e l’incapacità di rileggere cinematograficamente un mito pop che negli ultimi anni è cambiato radicalmente. Modellato sulla figura di Douglas Fairbanks Sr, l’eroe super di Jerry Siegel e Joe Shuster sullo schermo è refrattario all’inquietudine e al rischio concreto del dissolvimento della personalità a cui siamo abituati e che affligge i supereroi del cinefumetto contemporaneo. Riazzerato il personaggio, come se al cinema non avesse mai avuto un passato, questa volta tocca a Zack Snyder provare a eludere la moltiplicazione industriale della griffe, rifondando l’archetipo, avviando una nuova continuità e archiviando l’inalterabile Christopher Reeve e l’aggraziato Brandon Routh.
Concepito per piani cronologici destinati a incrociarsi, L’uomo d’acciaio inizia in un passato remoto che si fa presente e poi passato prossimo, illustrando letteralmente il concepimento del supereroe ‘fatto’ subito uomo sulla terra e ritornato bambino nei frequenti flashback. Il meccanismo procedurale, che interrompe la fluidità e la logica temporale, restituisce il senso della ricerca del protagonista, la consapevolezza della propria inalterabile differenza e della sofferenza di fronte alle prove che vanno superate e vinte. Versione ‘apocrifa’ di Superman, L’uomo d’acciaio rivela ‘ciò che era tenuto nascosto’ e che non riconosce, o almeno mette in discussione, l’ispirazione divina del personaggio, qui concepito naturalmente e portato alla luce dal padre-levatrice di Russell Crowe, eroe di impeccabile fattura con alle spalle il senso epico dello spettacolo. Sopportando sul proprio corpo e dentro un’arena domestica il pathos ferito e franto di un dramma familiare, Crowe doppia la voce dell’immortale Marlon Brando, producendosi in un genitore che si offre come testimone e modello costruttivo, indicando al figlio l’esistenza di un orizzonte di autentica libertà. Sulla Terra gli fa eco il padre adottivo di Kevin Costner che affronta il rischio e la bellezza della ricerca, nutrendo la nostalgia struggente di Kal/Clark. Se c’è allora un elemento di (grande) interesse nel Superman di Snyder, altrimenti fracassone e inefficace, è la rinnovata relazione padre-figlio che mette al mondo (e per il mondo) un erede giusto, un erede orfano perché contempla la probabilità di perdersi e comprende il debito dell’esperienza umana. La più grande avventura dell’immaginario del Novecento cambia angolazione e pone lo sguardo dalla Terra. L’uomo guardato dalle stelle è adesso astro precipitato e uomo tra gli uomini, uomo dentro alla notizia, dietro a occhiali ordinari e accanto a Lois Lane. È corpo di (super)man al termine di una battaglia che costituisce una radicale e definitiva frontiera esistenziale.

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