Archivio per 24 ottobre 2013

L’UOMO D’ACCIAIO

Il pianeta Krypton, esaurite le risorse naturali, è condannato a implodere. A pochi giorni dalla fine e nei giorni del colpo di stato del generale Zod, nasce un bambino destinato a cambiare la vita di un pianeta più giovane e lontano. Figlio di Jor-El, scienziato e luminare di Krypton, Kal viene imbarcato su una navicella e lanciato nello spazio con il codice genetico del suo popolo. Atterrato in Kansas e sopravvissuto ai genitori, Kal viene recuperato dai coniugi Kent, che lo educano con amore e senso etico. Molto presto però la natura aliena e formidabile di Clark, il suo nome terreno, prende il sopravvento emarginandolo dal mondo. Diventato uomo dentro al corpo di un dio, lascia la casa paterna in cerca delle proprie origini. Il ritrovamento di una nave spaziale, precipitata sulla terra milioni di anni prima, è la risposta alle domande disattese di Clark, a cui l’ologramma del padre biologico rivela identità e genesi. Unico della sua progenie, Clark incarna la ‘speranza’ di un domani migliore per il pianeta che lo ha cresciuto e che adesso vuole servire facendo il bene. Infilata la tuta rosso-blu di Superman, Clark dovrà vedersela con un fantasma del passato che torna a chiedere il conto.
Come Batman, suo compagno di nuvole e (super)avventure, Superman ritorna al cinema ma diversamente da lui non convince quasi mai. Gli effetti speciali e lo stupore visivo da soli non cancellano una mancanza di affezione per il fumetto e l’incapacità di rileggere cinematograficamente un mito pop che negli ultimi anni è cambiato radicalmente. Modellato sulla figura di Douglas Fairbanks Sr, l’eroe super di Jerry Siegel e Joe Shuster sullo schermo è refrattario all’inquietudine e al rischio concreto del dissolvimento della personalità a cui siamo abituati e che affligge i supereroi del cinefumetto contemporaneo. Riazzerato il personaggio, come se al cinema non avesse mai avuto un passato, questa volta tocca a Zack Snyder provare a eludere la moltiplicazione industriale della griffe, rifondando l’archetipo, avviando una nuova continuità e archiviando l’inalterabile Christopher Reeve e l’aggraziato Brandon Routh.
Concepito per piani cronologici destinati a incrociarsi, L’uomo d’acciaio inizia in un passato remoto che si fa presente e poi passato prossimo, illustrando letteralmente il concepimento del supereroe ‘fatto’ subito uomo sulla terra e ritornato bambino nei frequenti flashback. Il meccanismo procedurale, che interrompe la fluidità e la logica temporale, restituisce il senso della ricerca del protagonista, la consapevolezza della propria inalterabile differenza e della sofferenza di fronte alle prove che vanno superate e vinte. Versione ‘apocrifa’ di Superman, L’uomo d’acciaio rivela ‘ciò che era tenuto nascosto’ e che non riconosce, o almeno mette in discussione, l’ispirazione divina del personaggio, qui concepito naturalmente e portato alla luce dal padre-levatrice di Russell Crowe, eroe di impeccabile fattura con alle spalle il senso epico dello spettacolo. Sopportando sul proprio corpo e dentro un’arena domestica il pathos ferito e franto di un dramma familiare, Crowe doppia la voce dell’immortale Marlon Brando, producendosi in un genitore che si offre come testimone e modello costruttivo, indicando al figlio l’esistenza di un orizzonte di autentica libertà. Sulla Terra gli fa eco il padre adottivo di Kevin Costner che affronta il rischio e la bellezza della ricerca, nutrendo la nostalgia struggente di Kal/Clark. Se c’è allora un elemento di (grande) interesse nel Superman di Snyder, altrimenti fracassone e inefficace, è la rinnovata relazione padre-figlio che mette al mondo (e per il mondo) un erede giusto, un erede orfano perché contempla la probabilità di perdersi e comprende il debito dell’esperienza umana. La più grande avventura dell’immaginario del Novecento cambia angolazione e pone lo sguardo dalla Terra. L’uomo guardato dalle stelle è adesso astro precipitato e uomo tra gli uomini, uomo dentro alla notizia, dietro a occhiali ordinari e accanto a Lois Lane. È corpo di (super)man al termine di una battaglia che costituisce una radicale e definitiva frontiera esistenziale.

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THE LONE RANGER

John Reid è un uomo di legge, educato in città e tornato nel vecchio west per consegnare alla giustizia il pluricriminale Butch Cavendish. Durante la spedizione, però, un’imboscata uccide suo fratello, il Texas Ranger Dan Reid, e gli altri uomini della compagnia. John viene salvato da Tonto, un indiano, e da un cavallo bianco. I tre diverranno inseparabili.
Come inseparabili, nel contribuire alla nascita di questo esoso progetto cinematografico, sono stati Bruckheimer, Verbinski e Jhonny Depp: produttore, regista e interprete dei Pirati dei Caraibi. Ma, se è innegabile che lo stile sia quello (anche gli sceneggiatori sono gli stessi), in The Lone Ranger le derive più fracassone degli ultimi capitoli dei bucanieri restano fuori dai giochi e anche il personaggio di Depp gigioneggia di meno e non si avventura in parentesi solipsistiche ma serve il racconto, né più né meno del dovuto, quanto basta per dare a Tonto la dignità di partner alla pari del ranger, non più sua semplice spalla.
La coppia formata dal Cavaliere Solitario e da Tonto nasce all’inizio degli anni Trenta alla radio, per trasferirsi poi in televisione, sui fumetti e nei cartoni animati, accumulando una popolarità enorme. Verbinski e compagnia scrivono per immagini la storia di come John è arrivato a indossare la maschera, ma anche la genesi dell’avventura di Tonto, il come e perché si è allontanato dalla comunità ed è diventato un guerriero solitario. La struttura narrativa è sofisticata ma né complessa né ridondante e serve a tingere di leggenda ma soprattutto di nostalgia il racconto interno, la stessa nostalgia che il pubblico adulto associa inevitabilmente al titolo.
Più che ai Pirati, rispetto ai quali questo film si pone in continuità, prolungando il sapore del gioco infantile, è soprattutto a Rango che viene immediato (ri)guardare: non solo per l’ambientazione polverosa ma per la parabola del protagonista -eroe per caso, poi “smascherato” con dileggio e, infine, eroe per merito- e soprattutto per l’impianto narrativo (con il politico corrotto al centro della vicenda doppiogiochista).
Indiani e cowboy, ponti ferroviari e dinamite, bordelli e mitragliatrici, miniere d’argento e gambe d’avorio: al grande gioco del west non manca un tassello, il gusto dunque c’è, ma l’entusiasmo è moderato e a tratti lotta con la stanchezza. La fanfara rossiniana del Guglielmo Tell, sinonimo di libertà, assicura un finalone ma cozza con la sorte del vecchio Tonto, ridotto ad attrazione da museo, imprigionato nei pochi metri quadri di un’ambientazione ricostruita e posticcia. Il grande spettacolo del cinema classico non andrebbe lasciato alla polvere della cineteca, sembra dire Verbinski, se basta lo sguardo di un bambino a riportarlo in vita.

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BLOOD

Joe Fairburn e il fratello Chris sono due detective della polizia di una cittadina costiera dell’Inghilterra. Stanno investigando sull’omicidio di una dodicenne che ha scosso la comunità. I sospetti cadono ben presto su Jason Buleigh contro il quale però non ci sono prove così stringenti da impedirne il rilascio dal carcere. Allora Chris e Joe si ritengono legittimati da quanto il padre (che è stato a lungo capo del Dipartimento della Polizia locale) raccontava loro sui metodi sbrigativi utilizzati dalle forze dell’ordine. Decidono così di farsi giustizia da soli salvo poi trovarsi ad indagare su se stessi.
Come a volte accade nel mondo del cinema il tempo si trova a non godere di linearità. Ecco allora che, per non meglio precisati motivi organizzativi, tutti i recensori nel mondo hanno creduto (non per colpa loro) che 1921 – Il mistero di Rookford fosse il lungometraggio di esordio di Nick Murphy che invece aveva realizzato prima Blood, rimasto sugli scaffali della produzione fino all’ottobre 2012, mese in cui è stato proiettato in Inghilterra. Ci viene così data l’opportunità di scoprire che il primo interesse dell’eclettico regista televisivo britannico nel passaggio al grande schermo è rimasto legato alla tv.
Blood è infatti la rivisitazione cinematografica della miniserie tv Conviction datata 2004 e scritta da Bill Gallagher. Ciò che attirava l’attenzione era l’idea di vedere in azione qualcuno che veniva di fatto perseguitato dal crimine che aveva commesso. Murphy ha dato alla sceneggiatura un’impronta personale a partire dalle location utilizzate che finiscono con il diventare co-protagoniste della vicenda. La luce che viene prodotta dall’incessante alternarsi delle nuvole e del sole sull’isola di Hilbre costantemente battuta dal vento offre all’azione dei due fratelli una dimensione psicologica che va oltre alla pura e semplice descrizione di una detection, per quanto complessa essa possa risultare.
Anche se si ricorre ad alcuni luoghi comuni narrativi legati al senso di colpa o a una vita familiare difficile, complessivamente la tensione viene conservata e può interessare a chi a un film di detection non chiede dosi sovrabbondanti di azione ma un’analisi e una dimensione visiva che è in parte (e in senso positivo) debitrice della lezione di David Fincher.

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