Archivio per 8 ottobre 2013

LA GRANDE BELLEZZA

Scrittore di un solo libro giovanile, “L’apparato umano”, Jep Gambardella, giornalista di costume, critico teatrale, opinionista tuttologo, compie sessantacinque anni chiamando a sé, in una festa barocca e cafona, il campionario freaks di amici e conoscenti con cui ama trascorrere infinite serate sul bordo del suo terrazzo  con vista sul Colosseo. Trasferitosi a Roma in giovane età, come un novello vitellone in cerca di fortuna, Jep rifluisce presto nel girone dantesco dell’alto borgo, diventandone il cantore supremo, il divo disincantato. Re di un bestiario umano senza speranza, a un passo dall’abisso, prossimo all’estinzione, eppure ancora sguaiatamente vitale fatto di poeti muti, attrici cocainomani fallite in procinto di scrivere un romanzo, cardinali-cuochi in odore di soglio pontificio, imprenditori erotomani che producono giocattoli, scrittrici di partito con carriera televisiva, drammaturghi di provincia che mai hanno esordito, misteriose spogliarelliste cinquantenni, sante oracolari pauperiste ospiti di una suite dell’Hassler. Jep Gambardella tutti seduce e tutti fustiga con la sua lingua affilata, la sua intelligenza acuta, la sua disincantata ironia.
Anche Paolo Sorrentino, come molti registi dalla sicura ambizione, cade nella tentazione fatale di raccontare Roma e lo fa affondando le mani nel suo cuore nero, scoperchiandone il sarcofago da dove fuoriescono i fantasmi della città eterna, esseri notturni che spariscono all’alba, all’ombra di un colonnato, di un palazzo nobiliare, di una chiesa barocca. Un carnevale escheriano, mai realmente tragico ma solo miseramente grottesco, una ronde impietosa ritratta con altrettanta mancanza di pietà. A nessun personaggio di questa Grande bellezza è dato di evadere, e anche chi fugge lo fa per morte sicura o per sparizione improvvisa (ad esclusione del personaggio di Verdone, una sorta di Moraldo laziale, che si ritrae dal gioco al massacro tornando nella provincia da cui è venuto). Le figure di Sorrentino non hanno vita propria, sono burattini comandati da mangiafuoco, eterodiretti da una scrittura tirannica, verticale, sempre giudicante. Non hanno spazio di manovra, sembrano non respirare. Come fossero terrorizzati di non piacere al loro demiurgo, sembrano creature soprannaturali, evanescenti, eterne macchiette bidimensionali, schiacciate dall’imperativo letterario che le ha pensate. Con l’eccezione di quei personaggi cui è dedicato uno spazio più congruo come la Ramona di Sabrina Ferilli (davvero notevole) e il Romano di Carlo Verdone, gli altri animatori di questo circo hanno diritto a pochi concisi passaggi. Il domatore Jep Gambardella li doma tutti dispensando frusta e carota. La crisi di cui si dice portatore è senza convinzione, come i trenini delle sue feste, non porta da nessuna parte. Ma questa condanna sconfortata che cade su tutto e tutti, alla fine è assolutoria; e il ritratto di questa società decadente che si nasconde dentro i palazzi romani, mai visibile agli occhi di un comune mortale, sempre staccata dalla realtà, diventa solamente pittoresca.
Il Fellini della Dolce vita, cui si pensa immancabilmente, aveva una pietas profonda verso i suoi personaggi, e quella compassione permetteva allo spettatore di allora come di adesso, di agire una qualche proiezione emotiva. La grande bellezza di Sorrentino è invece abissale, freddissima, distanziata, un ologramma sullo sfondo.  A favorire questo distanziamento c’è anche l’approccio volutamente anti-narrativo, già sperimentato in This Must Be the Place, ma qui ancora più evidente. Citando Celine e il suo Viaggio al termine della notte, Sorrentino sperimenta una narrazione errante, fatta di continue effrazioni, smottamenti, deliberati scivolamenti da un piano all’altro, da una situazione all’altra, lasciando tracce, abbozzi, improvvisi vagheggiamenti. Alla storia preferisce l’elzeviro, l’affondo veloce, la critica sferzante e sempre erudita. Al dialogo preferisce un monologo straordinariamente punteggiato (e nel film si monologa anche quando si dialoga).
La grande bellezza sembra essere un film geologico, come fosse l’affioramento improvviso di una stratificazione con i suoi tanti livelli sovrapposti e confusi; sembra essere un film archeologico, come fosse il ritrovamento di un’antica stanza romana con i suoi patrizi e le sue vestali. Sembra essere un film senile, come fosse la lettura postuma del diario di un vecchio dandy che ha vissuto nella Roma degli anni duemila. Sembra essere un film di fantasmi usciti dalla penna di uno scrittore fin troppo compiaciuto della sua arte e del suo mestiere. Infine, sembra essere la risposta erudita e d’autore al To Rome With Love, contraltare e vendetta alla cartolina di Woody Allen, con qualche traccia di troppo dell’impeto trascendentale di un Terrence Malick cattivo maestro.

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THE BAY

Chesapeake Bay, Maryland. È il giorno che il cinema ha raccontato innumerevoli volte e che si colloca nel profondo del sentire Americano: il 4 luglio. La città si prepara, sindaco in testa, a festeggiare con una molteplicità di iniziative, a partire dalla gara dei mangiatori di granchi. Questa atmosfera ci viene descritta, in un collegamento via Skype, da una giovane che all’epoca (qualche anno prima) conduceva un reportage per una piccola emittente televisiva. Donna Thompson, così si chiama, ci racconta come dall’atmosfera di festa si passò nell’arco di pochissimo tempo all’orrore a causa di un parassita cresciuto a dismisura ed impegnato a divorare qualsiasi tessuto vivente.
Dimenticate il commediografo nostalgico di A cena con gli amici, non ripensate al regista di Rain Man – L’uomo della pioggia e neppure al filologico rivisitatore del passato di Bugsy. Non è ‘quel’ Barry Levinson a dirigere questo mockumentary. È piuttosto quello, più vicino nel tempo, che ha diretto per la tv You don’t know Jack sul dottor Kevorkian soprannominato il Dottor Morte per i più di 130 suicidi assistiti a suo carico.
Il Barry Levinson di oggi utilizza la propria competenza in fatto di media per suggerirci riflessioni su tematiche che ci toccano da vicino anche se spesso cerchiamo di rimuoverle dai nostri pensieri. Se in quel caso, grazie anche a un’eccellente prestazione di Al Pacino, lo spettatore era costretto a interrogarsi su quale fosse il livello di sofferenza al di là del quale scattava un legittimo desiderio di farla finita con la vita, qui è la tematica ambientale a trovarsi al centro dello schermo. Levinson ha ben presente quella forma ibrida di rappresentazione che, in particolare da The Blair Witch Project in poi, ha preso ad interessare chi ama il meticciato linguistico per immagini. Se visivamente possiamo pensare alla lezione dei più recenti Paranormal Activity, sul piano tematico la totalmente inventata Donna Thompson ci fa ripensare alla più che reale e impegnata Erin Brockovich.
Levinson utilizza tutti i media a disposizione, a partire dal già citato Skype, per metterci in allarme fondamentalmente su due argomenti. Da un lato ci suggerisce di pensare a quanto l’inquinamento ambientale (nello specifico si tratta di escrementi di polli di allevamento versati in quantità industriale nelle acque della baia) possa portare ad alterazioni prevenibili con una buona politica ma dagli effetti del tutto imprevedibili se lasciate fuori controllo. Non saranno forse opera di parassiti carnivori come quelli del film ma lo svilupparsi di nuove forme di allergie non è sicuramente frutto del caso.
Il film ci ricorda poi che chi ci amministra può ancora propendere, come il sindaco de Lo squalo per un occultamento della verità finalizzato a non intralciare gli affari (nello specifico il turismo). In quel caso, sembra suggerirci Levinson, non c’è Internet o Social network che tengano: i mezzi di comunicazione possono essere ridotti al silenzio e il denaro o la coercizione possono tacitare tutti o quasi. Vedi, ad esempio per l’Italia, la voce discariche abusive di prodotti altamente pericolosi.

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AFTER EARTH

Nel futuro la razza umana vive in continua guerra contro una specie aliena di natura animale, potente ma cieca, che rileva la presenza degli uomini fiutandone la paura. Solo una classe di militari, i “ranger”, sono in grado di combatterli perchè addestrati a non provare più alcun sentimento di terrore. Il figlio di uno dei ranger più noti e stimati si troverà in mezzo ad un atterraggio di fortuna, assieme al padre e ad un esemplare alieno, su un pianeta da tempo disabitato dall’uomo, la Terra. Lì il figlio dovrà dimostrare al padre, reso infermo dall’atterraggio di fortuna, di essere all’altezza del titolo di “ranger”.
Il rito di passaggio tra l’età infantile (quella del dominio incontrastato della paura) e quella adulta (in cui la paura va combattuta) tradotto nel linguaggio del cinema americano mainstream diventa inevitabilmente la storia di una seconda occasione fornita dalla vita per espiare una colpa attraverso le azioni, ed è un cineasta abile e raffinato ma tra i meno restii a sferrare colpi bassi (specie quando si parla di rapporti familiari) a trovarsi per le mani questo soggetto.
Shyamalan sguazza nel più classico caso di colpe dei padri che ricadono sui figli (il primo assente per lavoro, come la maggior parte dei padri colpevoli che Hollywood ha proposto negli ultimi 20 anni, il secondo incapace di agire in sua vece), posizionando un immobile Will Smith, infermo ma ubiquo grazie alla telecomunicazione, a guardare con mille occhi e mille orecchie il figlio (nella vita e sullo schermo) Jaden mentre si dimostra alla sua altezza, fronteggiando prima i propri demoni e infine la minaccia esterna, a conferma della nuova condizione raggiunta.
Paradossalmente è un soggetto scritto e voluto dai due Smith a riportare M. Night Shyamalan ad un film che ne esalti le qualità e ne limiti (purtroppo non azzeri) i molti difetti di scrittura, un’opera che lo spinge a girare un trattato sulla paura dotato del respiro del buon cinema d’azione, secco e dal gran ritmo, tutto giocato sulle regole della tensione al cinema. Mentre il suo protagonista lotta per vincere il proprio terrore e battere i propri demoni interiori, il regista maneggia i mille piccoli modi in cui la paura lavora con le immagini, e orchestra il suo viaggio attraverso una Terra distrutta ( slancio ecologista che non brilla certo per originalità ed efficacia) con l’obiettivo di liberarsi da qualsiasi paura Ricalcando un percorso nelle fobie fondamentali Shyamalan utilizza animali mostruosi come spettri di volta in volta del terrore dell’oscurità (il serpente nella grotta), del rigetto sociale (le scimmie) o ancora dell’ineludibile senso di colpa (l’aquila che non smette mai di inseguire).
Non disdegnando modelli forse troppo alti per le carte che ha in mano (il ritorno sulla Terra richiama più volte esplicitamente e implicitamente la letteratura americana, da Moby Dick ad Huckleberry Finn) After Earth è un film in cui il piccolo Smith si agita sotto il riflettore come si conviene all’eroe d’azione, mentre papà Smith fa il lavoro d’esperienza, calibrato su pochissimi movimenti essenziali, espressioni misurate e una recitazione minimale. Forse però non era lui, Will Smith, l’attore più adatto per questo compito, abituato com’è a caricare le espressioni invece che a giocare di sottrazione sembra chiedere al proprio mestiere più di quanto non possa dare.

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