Archivio per settembre 2013

FAST & FURIOUS 6

La ‘famiglia’ di Dominic Toretto, arricchita in modo esagerato con una rapina ai danni del boss brasiliano Hernan Reyes, è sparsa per il mondo a godersi la refurtiva: qualcuno diventando papà, qualcun altro sognando una vita insieme e qualcun altro ancora promettendo paradiso e champagne a donne avvenenti. Tutto sembra procedere noiosamente bene quando l’agente Luke Hobbs bussa alla porta di Dom in cerca di aiuto e in cambio di un favore. Una banda di piloti mercenari sta mettendo a segno una serie di spettacolari rapine che nascondono un piano più minaccioso e ambizioso. Il braccio destro di Owen Shaw, leader carismatico dell’organizzazione criminale, è Letty Ortiz, compagna storica di Dom creduta morta durante una missione. Colpito dalla notizia e deciso a saperne di più, Dom accetta di aiutare i federali negoziando l’amnistia per sé e per la squadra. Scaldati i motori si lancerà all’inseguimento di Shaw e dei suoi accoliti. Una corsa che vale la vita, l’amore e il ritorno a casa.
Uscita dal ghetto losangelino, ma ostinata a ‘rincasare’ per un barbecue, la famiglia di Dominic Toretto accende i motori per la sesta volta, guidando ad alta velocità per le strade del mondo. Saturo di adrenalina, ruote sgommanti, esplosione testosteronica e una verve autodenigratoria, Fast & Furious 6 è diretto di nuovo da Justin Lin e ‘guidato’ da Vin Diesel, irriducibile fuorilegge rasato a cui chiediamo ancora un altro giro. E lui, cowboy urbano senza paura e molto carburante consumato, ci accontenta, raddoppiando la posta e allargando la famiglia a un nuovo e piccolo Toretto. Driver di nuovo ‘in amore’ con la ritrovata Letty, Diesel è corpo esagerato che non delude mai. Generoso e fedele (al codice) condivide la scena con la massa enfatizzata di Dwayne Johnson, ‘roccia’ contro cui si frange la megalomania del villain di Luke Evans, moschettiere a cavallo convertito ai cavalli. Asfalto rovente e motori su di giri, il sesto capitolo parte a tutta birra, rallentando a metà percorso e impennando nella volata finale, dove trova un ‘abbraccio’ acrobatico e trattiene sulla pista un Boeing smisurato. L’ipertrofico Diesel, che ha dimostrato con Sidney Lumet (Prova a incastrarmi) di essere qualcosa di più di un culturista con ambizioni attoriali, resta il cuore, la carne e i muscoli sempre tonici di una serie longeva che non ci pensa davvero ad ‘accostare’, rilanciando dopo i titoli di coda con Jason Statham. Con un cliffhanger e un appuntamento rinnovato termina l’ennesima avventura del clan Toretto e di una gioventù ultrabruciata senza scopo e col vizio della corsa clandestina. Corse che rimpiangono la polvere delle backstreets mentre sollevano la polvere di stelle di una Londra dove tutto è davvero possibile, anche un amore ‘smemorato’ e memore. Nel turbo giro, in cui finiscono inghiottite le star di turno, resiste Paul Walker, ex poliziotto infiltrato e amico fraterno di Toretto, e rientra Michelle Rodriguez, moglie del divo tutta curve pericolose e grinta sporca. I due eroi ‘fendiaria’ danno vita e gas all’ennesima avventura mozzafiato che non risparmia in stravaganza e propellente, frullando girandole meccaniche, accelerate pirotecniche e inseguimenti da sballo. Tutto quello che Fast & Furious 6 promette nel trailer lo mantiene, pilotando un cast che tiene la scena come le macchine la strada. Infine, e da tradizione, nei titoli di coda si raccomanda allo spettatore di non emulare gli esercizi acrobatici dello schermo, rispettando il codice stradale incorreggibilmente infranto da una combriccola di irresistibili spacconi.

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LA FRODE

Un tycoon amato, carismatico e stimato (Richard Gere) è sul suo aereo privato con i suoi fedelissimi. Una firma che non arriva lo preoccupa, ma fa in tempo a festeggiare i suoi 60 anni con una famiglia perfetta, dalla moglie Susan Sarandon alla figlia Brit Marling, per poi fuggire dall’amante, una Laetitia Casta di bellezza abbagliante e inquietudine capricciosa. Il più classico dei potenti, insomma, ma con più stile e fascino. Nicholas Jarecki, fratello d’arte (di Andrew ed Edward, capaci mestieranti della macchina da presa), su questa straordinaria normalità inserisce un possibile scandalo finanziario e un intrigo privato. E questo Miller, filantropo e geniale, diventa in pochi minuti e in scene ben girate un uomo solo, in difficoltà, che vede crollare tutto attorno a sé e la terra mancare sotto i suoi piedi. In poche ore deve evitare ben due incriminazioni: una per frode – il suo concetto di finanza creativa è simile a quello di Madoff, con tanto di bilanci sbianchettati -, l’altra per omicidio. Dalla prima può salvarlo una vendita a una banca forse più spregiudicata di lui, dalla seconda un miracolo. O anche solo il sistema giudiziario americano, da sempre favorevole al miglior offerente, a chi può pagare i migliori avvocati. E non solo loro.
Thriller finanziario e noir classico, ma anche dramma sentimentale e familiare, La frode, film indipendente girato in 31 giorni, ha il pregio di ricordarci qualcosa di profondamente ovvio, nel mondo attuale, ma doloroso e raramente esplicitato: tutti hanno un prezzo. Tutti. E spostando lo sguardo sui comprimari, seguendo un Richard Gere in buona forma e a suo agio nei panni del cattivo ben vestito, troviamo uomini e donne pronti a tutto per sopraffare il prossimo. Dal poliziotto (Tim Roth) alla moglie devota. E chi crede negli ideali di lealtà, d’amore, di spontaneità, alla fine soccombe.
Jarecki ha l’efficacia di chi non si perde in rivoli narrativi inutili e la sensibilità per raccontare la ferocia gentile di un’aristocrazia economica che non ha regole. Lo afferma proprio Miller-Gere nel dialogo cruciale con la figlia, sua dipendente (è il direttore finanziario della sua società). Lui è “il patriarca, è dio. E tu lavori per me, tutti lavorano per me”. Il denaro e il potere sono le colonne d’Ercole oltre cui il mondo non può andare, se non fa parte di un club esclusivo e plaudente che può considerare un assegno di due milioni di dollari come una manciata di spiccioli. Nulla conta più del cerchio magico di questa comunità di eletti: persino quando si fa largo la questione razziale, in verità, tutto si fonda solo su un rapporto di sudditanza che con il colore della pelle non c’entra nulla. E il taglio sulla scena finale, che arriva con qualche secondo di troppo, non lascia consolazioni ma solo riflessioni.
Un buon film La frode, che, come da un po’ accade al cinema (questo nuovo trend, forse, è iniziato con Margin Call) svela le ombre del capitalismo e dei valori di questi anni: ottimo il cast, solida la sceneggiatura, intelligente e umile la regia. Non un capolavoro, ma un film di genere che si guarda con interesse. E di cui inevitabilmente si discute fuori dalla sala.

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HANSEL & GRETEL – CACCIATORI DI STREGHE

I due fratelli Hansel e Gretel, svegliati nel cuore della notte e abbandonati nel bosco dal padre, finiscono nella casa di una strega che intende cucinarli. Con fortuna ed abilità riescono non solo a fuggire ma anche ad uccidere la strega in questione. Quest’episodio trasforma la loro vita, che da quel momento in poi i due decidono di dedicare alla lotta alle streghe, diventando in pochi anni i più noti e abili cacciatori del campo. Così bravi da essere chiamati a risolvere un problema grosso in un paesino particolarmente infestato.
Tra i molti modi di gestire la parentela obbligata con la favola di riferimento, Tommy Wirkola sceglie di usarla come base, assunto da riportare fedelmente per poi raccontare, con l’atteggiamento geek, analitico e indagatorio tipico del cinema contemporaneo, cosa sia successo dopo la storia nota (e indirettamente cosa l’abbia causata). Dunque, sbrigata in fretta, ancor prima dei titoli di testa, la pratica del tributo alla prima parte del titolo, Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe, si muove di corsa verso la seconda parte del titolo e verso le proprie scelte d’adattamento.
I due fratelli sono cresciuti come avventurieri e si muovono in un mondo dipinto con i toni della graphic novel. Le scelte di messa in scena sono infatti tutte incanalate verso la stilizzazione di personaggi e ambienti, con un gusto particolare per l’anacronismo controllato. Come tipico di una certa tipologia di fumetti anche il film di Wirkola immagina una versione adatta all’epoca di idee, malattie, tecnologie e abbigliamenti moderni. Come in una storia steampunk seicentesca ci sono fucili, grammofoni, giubbotti dal taglio contemporaneo, diabete curato con iniezioni e altri dettagli anacronistici che raccontano come il blockbuster hollywoodiano contemporaneo cerchi, anche quando svincolato da debiti d’ispirazione, di rifarsi all’universo dei fumetti e in particolare a quello delle graphic novel (fenomeno esploso negli anni ’80 e ’90, quando la gran parte della classe realizzativa hollywoodiana di oggi era nell’età giusta per esserne il target), reimmaginando un passato filtrato dallo stile e dalla moda moderni.
Peccato che Wirkola non abbia l’occhio giusto per il compito o anche solo l’abilità e la capacità di appoggiarsi a collaboratori che l’abbiano. Proveniente da Dead snow, horror norvegese in cui nazisti zombie appena scongelati assalgono turisti di località sciistiche, il regista sembra non essere riuscito a passare ad un livello superiore in quanto a stile e sofisticazione. Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe grida infatti approssimazione ad ogni inquadratura e stacco di montaggio (il comparto di gran lunga peggiore, capace di rendere stranianti i campi/controcampi delle conversazioni e, cosa ancor più grave visto il genere, poco comprensibili le sequenze d’azione), il film sembra tornare serio solo quando si tratta di mettere in scena momenti splatter.
Anche la componente sulla carta più interessante ed originale, ovvero il fatto di avere una coppia uomo/donna dalla fortissima carica sessuale (basterebbe solo la presenza eccezionale di Gemma Arterton) che intrattiene un rapporto stretto e sentimentale eppure casto e fraterno, viene sprecata, preferendogli la separazione dei personaggi per più consuete e stereotipiche avventure (sessuali per l’uomo, sentimentali per la donna) con personaggi terzi.
Nella mediocrità generale purtroppo finisce per incidere poco l’ottimo lavoro fatto sulla resa tridimensionale del film.

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STAR TREK – INTO DARKNESS

L’insofferenza alle direttive e alla disciplina costano al capitano Kirk il comando dell’Enterprise. La flotta stellare gli leva la nave e lo separa dal suo primo ufficiale Spock, come due bambini troppo indisciplinati. Sarà l’arrivo di una minaccia imprevista e misteriosa e, di nuovo, la capacità di Kirk di mettere in luce le proprie abilità a costringere la flotta a rimetterlo al suo posto. Un uomo che la stessa razza umana ha modificato geneticamente, e poi congelato nel terrore di ciò che aveva creato, si è svegliato ed intende svegliare tutti gli altri 72 esperimenti come lui. Visto che uno solo basta a creare scompiglio e quasi demolire una città, l’obiettivo è renderlo innocuo il prima possibile. Eppure sembra che non sia lui il peggio intenzionato…
Da sempre alla ricerca dei meccanismi infallibili dell’intrattenimento, abilissimo assemblatore di affascinanti macchine calamita sguardi e narratore di gran ritmo, J. J. Abrams con il secondo film di Star Trek conferma di essere all’altezza del proprio nome e del nume tutelare che ha scelto per sè: Steven Spielberg.
Sebbene non dotato della profondità cinefila del maestro, Abrams ne ha appreso la lezione sulla semplicità narrativa e così riesce a ripetere l’ottimo exploit del suo Star Trek precedente senza davvero ripetere se stesso. Into Darkness, a dispetto del titolo, è una divertente corsa in cui la trama è srotolata durante l’azione, in cui le battute sono pronunciate correndo o al massimo camminando veloce e in cui la macchina da presa mobile al massimo riesce ad essere misteriosamente invisibile, mentre i bagliori lenticolari (anche quello un marchio dello Spielberg di fantascienza che Abrams ama enfatizzare) ampliano la prospettiva verso la grande epica.
Proseguendo la linea tracciata con il primo film Abrams si distacca sempre di più dalle caratteristiche della saga storica di Star Trek, non asseconda i fan ma cerca di parlare a tutti, lavora sul sentimentalismo del personaggio non sentimentale per eccellenza (il dr. Spock) e trasforma il western dello spazio in una space opera piena d’umorismo, ammiccamenti e ironia più che di grave austerità. Nonostante il villain scelto per questo secondo film (Kahn, già visto in un episodio della serie e poi in Star Trek II – L’ira di Kahn), sia tra i più letali e cupi mai incontrati dall’Enterprise, lo stesso il film scorre sulla propria leggerezza, lavorando sull’arma fondamentale del cinema d’azione che ambisce a diventare d’avventura: montaggio e ricerca di paesaggi che suonino inediti e vergini (in questo è molto utile il 3D, enfatizzato in tutti gli esterni con frequenti inquadrature a filo di piombo). L’inizio in chiave spielberghiana, diviso tra il furto di un oggetto sacro e il contrappunto di un pericolo imminente, lo dimostra in pieno.
Abrams non solo non ha paura di un confronto o della fedeltà con la serie (con una mano innesta un altro dei personaggi classici e con l’altra tramuta l’amicizia tra Spock e Kirk in un bromance moderno dove, come amanti, i due sovrappongono le mani da parti opposte di un vetro) ma è il primo che in questi anni di film tratti da altri lungometraggi o da materiale televisivo, cerca un rapporto diretto, continuo ed esplicito con il testo di partenza. Con l’esperienza maturata su entrambi gli schermi non si accontenta di una filiazione tra le due saghe e pretende una compenetrazione molto più complessa, perchè sa che la narrazione avviene nella testa degli spettatori, luogo in cui già esiste una mitologia trekkista con cui fare i conti (si sia fan o meno non si può ignorare l’esistenza della serie). E da gran narratore Abrams vuole indirizzare questa relazione.
Infatti non solo questo film rielabora, ribalta e rimescola molti momenti già visti negli scontri con Kahn ma con un salto metacinematografico non da poco e una metafora a questo punto sottilissima, in Into Darkness Abrams riesce effettivamente a far dialogare, nel senso stretto del termine, il suo Star Trek con lo Star Trek classico, lasciando addirittura che il secondo suggerisca al primo come risolvere la minaccia che incombe attingendo alla propria storia.

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SOLO DIO PERDONA

Julian allena pugili di thai boxe a Bangkok perchè ha ucciso il padre e non gli è rimasto altro se non fuggire dall’America dove la madre è a capo di un’organizzazione mafiosa. Suo fratello l’ha seguito ma non si è adattato alla vita locale e l’ennesima prostituta massacrata è il suo biglietto per l’obitorio. La cosa non è tollerabile e il capofamiglia si trasferisce a Bangkok intenzionata a fare giustizia a modo suo. Le regole di Bangkok non sono però quelle americane e la catena di vendette si interrompe subito quando tocca ad un poliziotto in pensione abile maneggiatore di spade che risponde al sangue con più sangue. In un mondo in cui tutti sono mobilitati per vendetta il più inadeguato però appare essere proprio Julian.
È andato fino in Thailandia Nicolas Winding Refn per girare un film asiatico (lo si capisce dai titoil di testa in caratteri thai), un’opera che parte da una trama presa dal cinema di genere e, come i migliori film di serie B, asciuga la narrazione, eliminando ogni orpello e ogni ridondanza per lasciare che solo un gesto, un dettaglio o un movimento accennato raccontino svolte ed eventi. Tuttavia nell’aciugare la messa in scena il regista danese non segue quel percorso che conduce alla serie B come la conosciamo ma ne prende un altro. Il suo film di vendetta, privato di ogni speculazione tra personaggi e raccontato mostrando anche meno dell’essenziale, è una girandola di omicidi con l’ingombro di un legame logico tra di essi, in cui i numi più importanti in materia (il cinema asiatico e il western) sono richiamati dalla scelta dei rumori sia delle spade sguainate che degli spari di pistola, una serie di suoni che non appartengono alle library del cinema intellettuale ma più a quelle iperboliche dei generi.
Così Solo Dio perdona è l’odissea finale di un uomo che ha scelto la boxe tailandese come lavoro dopo un’infanzia non semplice e un omicidio sulle spalle, un figlio non adatto al business di famiglia che si trova dover arrivare ai confini del mondo violento in cui vive per provare, suo malgrado, fino a dove sia in grado di spingersi, trovando un’inaspettata chiusa.
Lampade rosse, loghi rossi, luci rosse dei quartieri malfamati, delle palestre e dei bordelli, sangue rosso e scritte rosse (a detta del regista è quello l’unico colore che il suo daltonismo gli consente di distinguere) inquadrano un film con pochissime parole, una trama ridotta all’osso e un montaggio essenziale improntato su lunghe scene. Il centro della messa in scena rimane allora la fotografia, il modo in cui Refn guarda e ammira terrorizzato questi bellissimi abissi di efferatezza.
È evidente che nell’atto di massacrare c’è qualcosa di attraente per il regista danese, nell’esercizio della forza di un uomo su di un altro risiede un mistero inconoscibile che lo spaventa e attira al tempo stesso. Sono gesti che sceglie di mostrare con particolare dovizia di cui coglie l’evidente bellezza (presente sia in Pusher 3 che nelle risse di Bronson o nei martìri di Valhalla Rising e nelle esplosioni di sangue di Drive) ma di cui teme le orrende conseguenze con evidente sgomento. In un mondo (quello del cinema di genere e dei vengeance movies) in cui il perdono non esiste o al massimo è riservato a Dio, come del resto ricordano anche molti titoli italiani anni ’70, il suo protagonista non è un eroe ma un perdente su più fronti, fratello minore vessato da una madre padrona e incapace di perpetrare la propria vendetta come gli altri personaggi del film. Che ad interpretarlo sia Ryan Gosling, volto hollywoodiano e quindi eroico per definizione, è l’unico elemento realmente spiazzante ma in fondo in linea con le scelte anticommerciali e molto sofisticate del film.
Purtroppo non sempre la ricerca visiva è a livello delle legittime aspettative nè l’idea di riuscire a dipingere la purezza (nel bene e nel male) della violenza riesce a concretizzarsi davvero. Refn sa portare sullo schermo immagini di una perfezione formale e comunicativa impressionanti (il potere dell’ex poliziotto riassunto nei colleghi in uniforme che lo seguono costantemente come guardie del corpo ma muti e un’inaspettata riconciliazione materna attraverso l’immersione nella carne di uno sguarcio nello pancia) eppure questa volta l’impressione è che non sia sufficiente.

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STOLEN

Un ex ladro (Cage) è alla disperata ricerca della figlia scomparsa, rapita e chiusa nel bagagliaio di un taxi.

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ANNA KARENINA

Un treno innevato corre verso Mosca e verso un destino tragico, quello di Anna, moglie di Karenin, un alto (e ponderato) funzionario dello Zar. Aristocratica e piena di una bellezza vaga, Anna deve intercedere per il fratello, impenitente fedifrago, presso Dolly, la cognata determinata a non perdonare il suo ennesimo tradimento. Condiviso il viaggio con la contessa Vronsky, ne incrocia il figlio Aleksej, innamorandosene perdutamente. Perduto anche lui negli occhi di Anna, il giovane ufficiale trascura Kitty, sorella minore di Dolly candidamente infatuata di lui. Dentro un valzer infinito, le mani e i cuori di Anna e di Aleksej si intrecciano fatalmente, muovendo i loro destini e quelli di coloro che amano in direzioni ardite e sconvenienti per la società russa di fine Ottocento. Appassionati fino all’impudenza, Anna e Aleksej vivranno pienamente il loro amore, sfidando regole, convenzioni e religione, perdendo figli, diritti e prestigio. Invisa alla sua classe, al marito e a Dio, Anna riparerà in campagna e nell’abbraccio sempre aperto del suo amante, da cui avrà presto una bambina. Impossibilitata a sposare Aleksej e costretta ad affidare la sua piccola a Karenin, perché venga ‘riconosciuta’ e gli venga garantito un futuro, Anna infila l’ultimo treno e il freddo polare della morte. Non è nuovo Joe Wright agli adattamenti ‘in costume’ (Orgoglio e pregiudizio, Espiazione) ma mai come questa volta si è dimostrato sicuro del fatto suo e in pieno possesso dei propri mezzi, realizzando una versione di Anna Karenina che ‘fila’ letteralmente come un treno nella notte e alla maniera di un marionettista attraverso accorgimenti invisibili. Perché il suo film è calato in un teatro e percorso da un treno che apre e chiude una geometria delle passioni, a cui invano tentano di opporsi gli amanti di Tolstoj, esplosi nel mondo claustrofobico della Russia imperiale. L’Anna Karenina di Wright, al modo di Max Ophüls, fa danzare lo sguardo con la macchina da presa e ha il movimento di un valzer turbinante su un uomo e una donna che ostentano la reciproca rinuncia soltanto per sfidarla e alla fine vincerne la resistenza. Nell’età poco innocente e assolutista degli Zar, la tensione sentimentale che allaccia Anna e Vronsky interpreta la tensione sociale delle classi indigenti, che ‘abbigliano’ gli aristocratici, aprono e chiudono le porte dei quadri scenografici messi in scena e in cui si mettono in scena. Regista e sceneggiatore (lo shakespeariano Tom Stoppard) intrattengono lo spettatore informandolo assieme sulla società, le mode e i costumi dell’epoca di riferimento in cui si muovono, esprimono il loro desiderio e una vita mancata gli amanti infelici di Keira Knightley e Aaron Johnson. Rivitalizzato con risorse tecnico-linguistiche il romanzo di Tolstoj ritorna sullo schermo sfidando le trasposizioni illustrative con Greta Garbo, due volte Anna Karenina, prima ‘muta’ e poi sonora. La Knightley, sempre leziosa e impersonale, è nobilitata da un cinema che rifà il teatro che rifà la vita dentro uno studio e una danza. Danza che avvolge e coinvolge, diventando testimonianza della vita sociale, di esigenza poetica di racconto e di preludio all’azione. Accompagna Keira Knightley nel giro di valzer e di vita, il biondissimo e fatale conte di Aaron Johnson, portatore di eros e thanatos. Dietro alle quinte la trattiene e custodisce come un bene il marito imploso di Jude Law, che sperimenta dolente l’inarrestabile divenire morte della vita. Come inevitabile conclusione, come si addice alla forma tragica. Le passioni e le pulsioni vitali nel film di Wright finiscono così per coincidere con la distruzione indicando un destino senza possibilità di ritorno, gestito soltanto dall’immediatezza e dalla furia del sentimento. In una rappresentazione che alterna l’orizzontalità delle scene con la verticalizzazione delle scenografie si rinnova la tragedia della condizione umana di Anna Karenina, l’insostenibilità di un amour fou che distrugge e autodistrugge proprio mentre assapora la perfetta aderenza dell’amante amato.

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HALO 4 – FORWARD UNTO DAWN

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IL GRANDE GATSBY

Nella primavera del 1922, il giovane Nick Carraway si trasferisce a Long Island, in una villetta che confina con la villa delle meraviglie di Gatsby, un misterioso milionario che è solito organizzare feste memorabili e del quale si dice di tutto ma si sa molto poco. Cugino della bella e sofisticata Daisy Buchanan, moglie di un ex campione di polo, Nick viene a conoscenza del passato intercorso tra Daisy e Gatsby e si presta ad ospitare un incontro tra i due, a cinque anni di distanza. Travolto dal clima ruggente dell’età del jazz, da fiumi di alcol e dalla tragedia di un amore impossibile, Nick si scoprirà testimone, complice e disgustato, del tramonto del sogno americano.
Tra la versione del 1974, sceneggiata da Coppola ma cinematograficamente poco consistente, e la rilettura odierna firmata Baz Luhrmann, che invece carica l’impianto visivo fino quasi a soffocare la voce amara e toccante del romanzo di Scott Fitzgerald, è lecito sognare una giusta temperatura di trasposizione, che resta ancora ideale, e rinnova la sfida ai cineasti a venire, com’è nella natura dei grandi classici di fare.
Non c’è dubbio, infatti, che nel libro di Fitzgerald ci sia un corpo che domanda di essere tradotto esattamente con il linguaggio del cinema e della musica: è quello che parla della trasformazione fisica del protagonista, dei costumi che indossa, dell’architettura che abita, degli straordinari eventi che ospita; dell’epoca che incarna. E non è tanto su questo fronte, come verrebbe da pensare pregiudizialmente, che il film di Luhrmann è ridondante: il regista australiano sa animare come pochi altri una festa cinematografica e qui lo conferma a più riprese, sulle note di un r’n’b contemporaneo che aspira a giocare il ruolo inebriante che all’epoca giocava il jazz. Ma c’è anche un’anima, nel romanzo, autobiografica e disperata, che parla molto più in sordina di quanto non faccia il film di Luhrmann, che pecca in più riprese di un’eccessiva esplicitazione dei sentimenti in campo, si compiace rovinosamente nel finale, e di fatto non trova una via altrettanto personale, se non quella di ripetere modi e caratteri di Moulin Rouge.
Tobey Maguire, nei panni di Nick Carraway, sembra infatti ricalcare la figura dello scrivano tragico di Ewan McGregor, al punto che il regista inventa per lui una cornice gemella e superflua, mentre il Gatsby di Leonardo Di Caprio, straordinario nella performance silenziosa e nella restituzione della solitudine del sognatore e dell’ambizioso (anche in virtù dei ruoli già indossati che si porta appresso), subisce suo malgrado la sorte del film a cui dà il nome, perdendo mistero e fascino man mano che l’orologio scorre e tentando invano di elevare la tensione alzando la voce.
D’altronde, insistendo sul tema del guardare e dell’essere guardati, è il regista stesso a fornire un’indicazione per la lettura del suo lavoro. Nick è un osservatore della vita, un voyeur, Gatsby ha la fama di essere una spia e vive per raggiungere quella luce verde al di là dell’acqua che guarda senza posa, i due si tengono sotto controllo dalle rispettive finestre, mentre un paio di giganteschi occhi maschili (simili a quelli di donna dipinti da Francis Cugat, che Fitzgerald volle come copertina) scruta come un dio pagano il distretto operaio dove i ricchi sostano per il tempo dei loro sporchi comodi. Luhrmann, cioè, denuncia per primo e ribadisce ad oltranza il carattere eminentemente visivo del proprio operato, invitando il pubblico a godere dei fuochi d’artificio, dello “spettacolo spettacolare”, e dissuadendolo dal “pretendere troppo”, come impudentemente osa invece fare Gatsby.

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PAZZE DI ME (BLU-RAY)

Andrea vorrebbe disperatamente un lavoro fisso e una compagna per la vita. Figlio maschio in una famiglia di femmine (il padre è scappato venticinque anni prima) è vessato da una madre generale, tre sorelle fastidiose, una nonna farneticante, una badante svogliata e una cagnetta imbronciata. Bambino trascurato, è cresciuto col complesso di inferiorità e l’annichilimento della volontà. Innamoratosi di Giulia, decide di ometterle l’ingombrante famiglia, fingendosi orfano felice. Ma la verità molto presto investe il suo sogno d’amore con la forza di un maremoto e di sette Erinni, decise anche questa volta, e loro malgrado, a comprometterne progetti e sanità mentale. Ostinato nel suo amore, Andrea trova in se stesso la forza di dire no e di costruirsi un futuro a trecentocinquantaquattro metri dall’appartamento materno. L’amore vero lo stanerà al supermercato, tra il reparto della frutta e quello della verdura.
Se provassimo ad affrontare il nuovo film di Fausto Brizzi da un punto di vista squisitamente morale, facendone insomma una questione di libertà e non di qualità cinematografica, diremmo che ognuno ha il diritto di scrivere e di girare quello che vuole, che tutti i gusti sono naturalmente degni. Nondimeno resta che vi siano film buoni e film meno buoni. Pazze di me appartiene alla seconda categoria e possiamo portare le prove. La nuova commedia di Fausto Brizzi, scritta a sei mani con l’inseparabile Marco Martani e Federica Bosco, che poi ne ha tratto ispirazione per un romanzo, è cinema industriale, quel cinema che si limita a (ri)produrre all’infinito gli stessi racconti, che fabbrica stereotipi, fa commercio di buoni sentimenti, si serve di pretesti offerti dall’attualità per realizzare film di circostanza, studia a tavolino il mercato, individua una certa categoria di spettatore. Il soggetto poi è sempre il conflitto tra i sessi ripescato, rievocato ed enfatizzato fino a comporre una morale della favola che ‘castra’ il maschio di casa e suggerisce un modello femminile acido e ipernevrotico, molto di moda nelle serie televisive, condito di volgarità e di cattiveria. Cavalcando l’immaginario ormai collaudato di maschi contro femmine e femmine contro maschi, risultato di una riproduzione di formule prestabilite non certo di una creazione, Fausto Brizzi confeziona un’allucinazione mediale che non ha riscontro nella realtà ma è solo una proiezione del desiderio di chi l’ha generata. Pazze di me, sprecando letteralmente un cast di signore (del teatro e del cinema), è una commedia di semplificazione (e di menzogna) del mondo femminile, inaccessibile e lontano, di cui non dice la verità e la complessità. Insomma un film ‘usa e getta’ con finale accomodante che ‘accomoda’ le donne e generalizza grossolanamente gli uomini, sempre narcisisti, infedeli o insicuri. Talmente conciliante da far tornare nei titoli di coda il ‘cattivo padre’ di cui Andrea è il simbolico residuo aggiusta tutto, sorelle comprese. Pazze di me inquina il valore della faticosa indipendenza della donna e della sua realizzazione sociale. Brizzi perde l’ennesima occasione di fare un buon film. Appunto.

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